Jauregui._Partido_de_Luján

La scrittura impossibile

Hernán Ronsino Scrittura, SUR

Jauregui._Partido_de_LujánPresentiamo oggi la prima parte di un testo dello scrittore argentino Hernán Ronsino, scritto in occasione del 10° Congreso Argentino de Literatura de Santa Fe: un viaggio attraverso la scrittura, possibile, impossibile, interrotta.

«La casa e il violino» / 1
di Hernán Ronsino
traduzione di Giulia Zavagna

1. La scrittura impossibile

Non sono mai riuscito a scrivere una poesia. Scrivere una poesia mi è sempre risultato impossibile quanto suonare uno strumento musicale, come suonare, per esempio, il violino. Ogni volta che mi sono cimentato nella scrittura di una poesia il primo risultato non era che un enjambement di parole piuttosto scolastiche, in rima. Tutti i miei tentativi finivano per essere sfilacciati, in un’impossibilità che sfociava nell’abbandono. L’idea di una poesia abbandonata nelle pagine di taccuino qualunque. Un’immagine di abbandono che ho sempre associato all’immagine di un edificio invaso dalle erbacce. Erbacce che prendono il corpo di una poesia.

Nell’impossibilità di scrivere, come in una casa abbandonata, abita un enigma. Da bambino viaggiavo spesso a La Plata per un problema di salute che nessuno nella mia città poteva curare. C’era un medico a La Plata, un certo Fogelberg, che curava ogni tipo di allergia. Qualcuno, l’ex fidanzata o un parente dell’ex fidanzata di un mio zio era stata seguita da Fogelberg, e aveva passato il contatto a mia madre, dicendole che era bravissimo. Che i suoi metodi funzionavano. Iniziammo ad andarci una volta al mese. Prendevamo il pullman e, per arrivare a La Plata in orario, dovevamo prendere l’Automotores La Plata che passava dalla mia città alle cinque e mezza del mattino. Quindi, poco dopo aver passato Mercedes, dal finestrino vedevamo come il sole iniziava a spuntare – secondo quanto diceva mia madre – da dietro Buenos Aires. Allora, quando passavamo per Jáuregui, a pochi chilometri da Luján, potevamo già vedere quella casetta illuminata, su un lato della strada e, all’epoca, in costruzione. Era una villetta, di quelle tipiche degli anni Ottanta. La cosa curiosa era dove la stavano costruendo. Perché non si trovava di fronte alla piazza del paese. La villetta era piazzata in mezzo alla campagna, accanto alla strada. In quegli anni di viaggi a La Plata la villetta in costruzione diventò poco a poco una tappa fissa del percorso. Dopo quella villetta iniziava l’invasione urbana. Le estensioni della metropoli che, come un polpo, stava invadendo la pampa. La villetta marcava, più o meno, la metà del viaggio. Nel corso del tempo avevano tirato su i muri e il tetto spiovente. All’ora in cui ci passavo con mia madre non c’erano operai, ma si vedevano i vari strumenti pronti all’uso: la macchina che preparava il cemento, una carriola, delle pale. Quando il trattamento per la mia allergia terminò, i viaggi a La Plata o a Buenos Aires diventarono sempre più rari. A volte, potevano passare perfino anni senza che percorressimo mai quella strada. Credo che il viaggio successivo lo facemmo in auto. Andavamo a un rosario a Pacheco. Uno zio di mia madre, uno zio italiano di quelli che ogni tanto irrompevano in casa la domenica mattina, gridando e buttando tutti giù dal letto, uno zio che si chiamava Chequeche era morto. Qualcuno telefonò per avvisare e partimmo all’improvvisata. Ci mettemmo tutti in strada su un’auto senza revisione, nonostante le volontà di mio padre. Una Falcón del ’64. Durante il viaggio dormii, ma ricordo che aprii gli occhi prima di passare per Járegui. Rimasi accoccolato in grembo a mia madre, a guardare la tappezzeria del soffitto: c’erano un’infinità di stelle, come incrostate o cucite. Ero tutto concentrato su questo quando mia madre disse: «Questa casa non la finiranno mai». E allora capii e mi alzai e cercai la villetta che si perdeva, fuggiva il mio sguardo, incompleta. A partire da quel momento – forse per il modo in cui mia madre lo disse – un mistero iniziò a circondare quella casa. Un mistero che si accentuò nel tempo con il permanente stato di abbandono: con l’invasione delle erbacce, con il colore che poco a poco presero i muri, quelle macchie di muschio, quell’oscurità – che ancora oggi si vedono costeggiando la strada – dipinta come un quadro nero e scurissimo.

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