Requiem For A Dream

Intervista a Hubert Selby Jr.

Ellen Burstyn Autori, BIGSUR, Ritratti

Pubblichiamo una conversazione tra l’attrice Ellen Burstyn e il romanziere americano Hubert Selby Jr. I due si erano conosciuti sul set del film Requiem for a Dream (2000), diretto da Darren Aronovsky e tratto dal romanzo di Selby Requiem per un sogno (1978), la prima in qualità di attrice protagonista, il secondo in qualità di sceneggiatore. L’intervista fa parte degli extra del dvd di Requiem for a Dream ed è visibile su YouTube qui e qui.

di Ellen Burstyn
traduzione di Dario Matrone

 

ELLEN BURSTYN: Cubby [soprannome di Hubert Selby Jr., n.d.t.], mi interessa conoscere il tuo percorso spirituale. Voglio sapere da dove sei partito spiritualmente e qual è stato il tuo cammino.
HUBERT SELBY JR.: Non saprei. Probabilmente non scoprirò da dove sono partito come spirito finché non lascerò il mio corpo. Ma sono sicuro che tutto sia iniziato poco prima di nascere. Trentasei ore prima di nascere ho iniziato a morire. Morire per me è diventato uno stile di vita. Quando sono nato avevo la cianosi, il cervello danneggiato. Ero pure brutto, che tu ci creda o no. E poi ho fatto il mio ingresso nel ventesimo secolo strillando, ero infuriato. Non so bene perché ero tanto infuriato, ma lo ero. Strano, per tutta la vita, fin da bambino guardavo il mondo intorno a me e dicevo: «Non dovrebbe essere così». Non capivo, e non capisco tuttora – ma da bambino la cosa mi confondeva ancora di più – perché la gente si faccia del male, gli uni con gli altri. Non lo capivo proprio. Da bambino ricordo che avevo… avevo due eroi. Uno era Paul Robeson, l’altro il Mahatma Gandhi. Non so perché, ma queste due figure le amavo proprio. E Paul Robeson una volta l’ho anche incontrato di persona. Comunque è tutta un’altra… cioè, fa parte della stessa storia ma… E poi c’è stata un’esperienza spirituale che mi ha fatto prendere una decisione consapevole – anche se all’epoca non lo sapevo. Mi riferisco a quando ho iniziato a scrivere.

EB: Quanti anni avevi?
HSJ: Ventotto, più o meno. Avevo passato qualcosa come quattro anni tra un ospedale e l’altro. Mi asportarono dieci costole. Durante la guerra mi ero preso la tubercolosi. A quindici anni mi ero imbarcato su una nave, durante la guerra.

EB: La seconda guerra mondiale?
HSJ: Esatto.

EB: E sei entrato in marina?
HSJ: L’unica vera guerra è quella, giusto? No, in marina mercantile. Mi piaceva andare per mare, ma l’ho pagata cara.

EB: Come si fa a prendere la tubercolosi in mare?
HSJ: Be’, durante la guerra la tubercolosi girava parecchio per via dello stress fisico, della malnutrizione, delle condizioni igieniche – non tanto sulle navi quanto in Europa, sulla terraferma. Si era esposti al contagio. Tantissima gente nelle forze armate e in Europa si prese la tubercolosi durante la guerra.

EB: Scusa se ti interrompo, ma poco fa hai detto che mentre eri nel grembo materno hai avuto la cianosi?
HSJ: Esatto.

EB: Di cosa si tratta?
HSJ: La cianosi è una mancanza di ossigeno. Diventi tutto blu. Ero rimasto con il cordone ombelicale attorcigliato al collo per trentasei ore. Perciò quando sono nato avevo dei danni al cervello, ero infelice già da allora.

EB: Che tipo di danni erano?
HSJ: Di preciso non lo so. Due tipi diversi di danni al cervello. Uno è un difetto genetico. Non conosco il nome scientifico, ma è una specie di dosatore della rabbia che si trasmette di padre in figlio.

EB: La rabbia?
HSJ: Sì, la rabbia.

EB: Dici sul serio? Non sapevo che fosse un fattore ereditario.
HSJ: Be’, evidentemente esiste una patologia del cervello che si può ereditare.

EB: E questa rabbia è una cosa che provi spesso?
HSJ: Sempre.

EB: Davvero?
HSJ: Sì, ma ormai non la scarico più sugli altri. Mi viene un attacco di rabbia che dura un paio di secondi e poi mi passa. Permetto a me stesso – a quella parte della mia umanità – di perdere il controllo per qualche secondo perché è l’unica cosa che mi dà sollievo, a volte. Vengo travolto dal dolore di vivere. Come adesso, non stavo così male da anni.

EB: Come mai ti senti così?
HSJ: Eh, ci sono certi problemi – problemi familiari – che mi hanno letteralmente distrutto. Proprio… proprio distrutto. E poi ieri sera mia madre è stata ricoverata in ospedale e… sai, deve compiere novant’anni il 20 di questo mese. Quindi non è che sia una tragedia improvvisa. Sono anni che è costretta a letto. Me lo aspettavo da tempo. Solo che, come dire, le cose si accumulano l’una sull’altra. Ci sono certe cose che fai perché sai che le devi fare per forza, ma questo non diminuisce il dolore di farle.

EB: Mia madre è morta subito dopo Pasqua e… aveva novantadue anni ed erano anni che non stava bene. Quindi, come dire, era tempo che succedesse eccetera eccetera. Ma ti sconvolge lo stesso. Qualunque fosse il rapporto che avevi con tua madre, il tipo di… l’età che aveva, se era o non era pronta per morire. È comunque troppo presto.
HSJ: Quel momento lì, certo.

EB: È come se la bambina… cioè, l’adulta dentro di me diceva «ha smesso di soffrire» e bla bla bla, tutte quelle razionalizzazioni lì, ma la bambina dentro di me era completamente annientata
HSJ: Esatto, «voglio la mamma».

EB: «Voglio la mamma».
HSJ: Sì, sì, ti capisco. A volte mi sento come un bambino orfano di madre. Però credo siano cose inevitabili. Una delle più grandi forme di sofferenza… parlo di sofferenza, non del semplice dolore… si soffre quando si cerca di negare l’esperienza del lutto e del dolore, e anche quel senso di «voglio la mamma», che fanno parte della condizione umana.

EB: E quindi qual è la funzione della sofferenza?
HSJ: Credo che la funzione – se ho capito bene la parola che hai usato – la funzione della sofferenza è farci capire che stiamo vedendo le cose in maniera distorta. Stiamo giudicando certe cose naturali in maniera tale da crearci da soli una sofferenza. Faccio un esempio. Provi dolore per certi fatti, certe situazioni che capitano, e se dici semplicemente: «Ok, eccomi qua. Ora sperimenterò questo dolore», non soffri. Cercare di resistere ai fenomeni naturali della vita provoca sofferenze enormi.

EB: È quello che cerca di evitare Sara Goldfarb [la protagonista di Requiem per un sogno, interpretata da Ellen Burstyn, n.d.t.].
HSJ: Il Grande Sogno Americano consiste nel cercare di evitare il dolore. Ecco perché ti uccide.

EB: Giusto. Mentre interpretavo Sara non smettevo di pensare che se soltanto avesse spento la tv e smesso di mangiare dolci, se si fosse messa seduta a pensare: «Sono sola, sto male», allora forse ci sarebbe stata la possibilità di un cambiamento nella sua vita.
HSJ: Non credo che la vita presenti mai – no, non è la parola giusta – non credo che nella vita si possa mai incontrare un problema senza che la vita stessa ti offra anche la soluzione. È spiritualmente impossibile che esista un problema senza che esista anche la soluzione, ma poi i giudizi razionali offuscano tutto per cui la risposta non affiora a livello conscio.

EB: Scusa, ti ho interrotto. Stavi raccontando di un’esperienza spirituale che hai fatto a ventott’anni.
HSJ: Ah, sì. Come dicevo, in ospedale mi avevano dato per morto almeno quattro volte, e uscito dall’ospedale mi venne l’asma, e stavolta il dottore disse… che storia fantastica. Adoro l’American Medical Association, la amo proprio. Dio benedica i dottori. Ero in ospedale e arriva questo cosiddetto specialista, neanche entra in stanza, si ferma in corridoio e fa: «Non possiamo fare niente per te. Non hai i polmoni, non puoi sopravvivere. Siediti e prenditela comoda, tanto stai per morire». Poi se ne andò, e qualche tempo dopo mi arrivò la fattura. Li amo… amo l’American Medical Association. Ma sai…

EB: Sbaglio o lo dici in tono ironico?
HSJ: Ma io sono talmente un bastardo che mi sono rifiutato di morire. «Non sarai tu a dirmi quando devo morire!» E così eccomi qui. Tornai a casa. All’epoca vivevo dietro un salone di barbiere. Ricordo che ebbi quest’esperienza. Sul momento non mi resi conto che si trattava di un’esperienza spirituale, ma quello era. Come saprai, sono esperienze molto più reali di quelle che si fanno a livello consapevole. Ogni cellula della tua anima esplode, bum! Nel momento dell’esperienza entri in contatto con l’Esperienza, quella con la E maiuscola. All’epoca non me ne resi conto, non potevo saperlo. Comunque, il fatto è che capii che un giorno sarei morto. E non come mi era già successo, di essere sul punto di morire ma di sopravvivere in qualche modo. No, no, capii che sarei proprio morto. E subito prima di morire sarebbero successe due cose. Primo: mi sarei pentito di tutta la mia vita. Secondo: avrei desiderato di rivivere tutta la mia vita. Dopodiché sarei morto. E la cosa mi terrorizzava. Che pensiero terribile! Vivere tutta la tua vita – arrivare a sessant’anni, ottanta, centotrentacinque, quello che è – e alla fine guardarti indietro e dire: «È stato uno schifo. È stato tutto uno schifo». E poi zac, chiuso, finito. Dovevo darmi da fare. Dovevo combinare qualcosa nella vita. Ma sapevo che non avrei mai potuto studiare. Cioè, avevo fatto la terza media, non sono totalmente analfabeta, ma mi era bastato per capire che la scuola non faceva per me. Sapevo che non sarei potuto diventare un compositore, né altre professioni che richiedessero un grado di istruzione. Però sapevo leggere e scrivere. Così pensai che forse potevo diventare uno scrittore. A volte la visione distorta, la follia e l’arroganza giocano a tuo vantaggio. Ma non potevo saperlo.

EB: E perché la scrittura? Perché non la pittura?
HSJ: Oggi so che sono uno scrittore. Ecco perché. Ma a questa conclusione ci sono arrivato a modo mio, attraverso ragionamenti sbagliati che però mi hanno portato fortuna. È quella la mia vocazione. Per la pittura non sono portato, non so nemmeno tirare una linea dritta. Non ho nessun talento. Probabilmente sono la persona con meno talento che sia mai esistita. Non ho abilità naturali. Nessuna.

EB: Com’è possibile fare lo scrittore senza avere un talento naturale per la scrittura?
HSJ: Mettendosi seduti e scrivendo ogni santo giorno. Fino a quando non si impara.

EB: Quello che voglio dire è: se sei uno scrittore, non è una delle cose che ti definiscono, il fatto di avere una predisposizione per la scrittura?
HSJ: Dipende dalla definizione di scrittore. Io non ho nessun talento naturale. Non sapevo scrivere una lettera, non sapevo tirare una riga dritta. Non avevo particolari abilità manuali. Non sono mai stato un atleta eccezionale. Nessun talento naturale. Per talento naturale intendo quelli che gli dai una matita e un pezzo di carta e loro ti fanno un bel disegno.

EB: Avevi un talento per la sopravvivenza.
HSJ: Quello sì. Ma io dico quelli che sanno scrivere poesie, o delle bellissime lettere, roba del genere. Niente. Però avevo l’ossessione di dover combinare qualcosa nella vita. Non volevo sprecarla. Perciò ogni sera, quando tornavo a casa, mi mettevo a scrivere. Scrivevo e scrivevo, risme e risme di carta. Per esempio quella sezione di Ultima uscita per Brooklyn, «Tralala», è lunga una ventina di pagine ma per scriverla ci ho messo due anni e mezzo. Mi mettevo seduto, la scrivevo e la riscrivevo. Buttavo tutto e ricominciavo da capo. Mi lasciavo prendere così tanto dai personaggi che creavo che una volta finito di scrivere il testo a cui stavo lavorando rimanevo a letto per due o tre settimane. Mi addormentavo alla macchina da scrivere. Ero… ero ossessionato dall’idea di dover combinare qualcosa nella vita.

EB: Sia Ultima uscita per Brooklyn che Requiem per un sogno sono opere che quasi chiunque definirebbe molto oscure. Perché sei attratto dal lato oscuro?
HSJ: Be’, immagino sia perché conosco meglio l’oscurità che la luce, ed è più facile scrivere della prima.

EB: Perché?
HSJ: Perché la conosco meglio. Il punto è che… sai, se non riesco a capire la sofferenza delle persone, non posso trovare una soluzione per la sofferenza. Quando avevo otto, dieci anni, mi immaginai per la prima volta di avere un obiettivo, un’ambizione. Quella di cancellare il dolore dal mondo. Ero serio, non credo fosse soltanto una… Non so perché, ma evidentemente mi sembrava che il mondo fosse pieno di dolore. Cioè, l’unica cosa che vedevo era gente che si faceva del male a vicenda, che si ammazzava, che si picchiava – nient’altro che dolore dappertutto. Sui giornali, ovunque. Erano gli anni della Depressione, ovviamente; poi venne la guerra e fu anche peggio. Era una cosa che da bambino non riuscivo ad accettare. Neanche adesso ci riesco. Be’, forse adesso sì, in parte. Ma… questo lato oscuro lo conosco dall’interno, principalmente, credo, perché da piccolissimo stavo per morire. Ma lo conosco anche dall’esterno. Quando sei consapevole di qualcosa dentro di te, lo percepisci anche all’esterno. Io ci credo davvero, che siamo noi a creare il mondo in cui viviamo. Se la memoria non m’inganna, la parola eye, «occhio» – in sanscrito o in ebraico – deriva dalla radice ayin, «fontana». In altre parole, non è un organo che riceve le vibrazioni dall’esterno, le analizza e le interpreta: è come un proiettore. Siamo noi a proiettare il mondo in cui viviamo. Perciò credo che se si ha una conoscenza tanto ravvicinata dell’oscurità, allora ciò che si percepisce all’esterno è per forza l’oscurità. Insomma, mi venne – non consciamente – l’ossessione di imparare a scrivere, a immergermi quanto più a fondo possibile nell’oscurità e poi riemergere dicendo: «Ok, ecco il problema. Non posso darvi la soluzione, ma ecco il problema. L’oscurità. Bene: adesso come volete fare ad affrontarla?» Non era un’intenzione consapevole da parte mia, ma è quello che ho finito per fare. Infatti i miei primi quattro libri sono patologicamente privi di catarsi, di consolazione, di risposte. Ma quello che è successo dopo ha qualcosa di straordinario, secondo me. In questi anni ho parlato con migliaia di persone, ho ricevuto le loro lettere, e c’è una parola che ricorre sempre, riferita al mio lavoro: «compassione». Questi lettori hanno trovato dentro di sé la compassione e la capacità di non giudicare le persone che normalmente avrebbero condannato a morte. Tutt’a un tratto hanno compassione per queste persone. Il che è straordinario. Non era il mio obiettivo, ma evidentemente è stato quello il risultato, perché sono in tanti a dirmi la stessa cosa. Insomma, i primi quattro libri sono un tentativo di osservare l’oscurità da quanti più punti di vista possibile. Dopodiché, non ho voluto soltanto limitarmi a passare dal buio alla luce, ma anche mostrare come si fa a passare dal buio alla luce. Sai, non ho mai voluto semplicemente raccontare una storia. Volevo sottoporre il lettore a un’esperienza emotiva. E credo che la ragione sia che sono sempre stato un insegnante frustrato, un predicatore frustrato. E l’ho sempre saputo. Per cui mi sforzo molto consapevolmente di tenere quell’aspetto fuori dalla scrittura, perché credo che non sia compito dello scrittore, credo che l’ego debba farsi da parte. Sono sicuro che come artista è una cosa che capisci. L’idea è di sbarazzarsi di sé stessi, giusto? Credo di non avere il diritto di frapporre me stesso, l’ego, tra la storia e il lettore. Deve esserci come una relazione reciproca tra la storia e il lettore, l’uno deve fare esperienza dell’altro. Perché se vuoi davvero impartire degli insegnamenti, devi farlo sul piano delle emozioni. Quello che… l’intelletto non può… Il rischio è che il lettore riceva un mucchio di informazioni, ma che non si trasformino in reale saggezza, ed è di saggezza che abbiamo bisogno se vogliamo salvarci, salvare la nostra anima e la nostra carne. Abbiamo bisogno di saggezza.

 

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