Pubblichiamo oggi la seconda parte di un saggio di Luis Roberto Vera su due grandi artisti messicani, a confronto con l’immensa tradizione del loro paese: Octavio Paz e Frida Kahlo. Qui potete leggere la prima parte.
«Octavio Paz e Frida Kahlo: l’eredità precolombiana» / 2
di Luis Roberto Vera
traduzione di Violetta Colonnelli
2. Vita e morte
A mio modo di vedere il primo esempio del legame tematico tra la pittura di Frida Kahlo e il pensiero del mondo precolombiano – e non solo le citazioni che illustrano e riproducono i reperti archeologici nei suoi autoritratti più noti – si manifesta nel Retrato de Luther Burbank (1931). Il quadro, dipinto a San Francisco, è diviso in due registri: in quello superiore l’oggetto ritratto appare come l’incarnazione di un albero (un arancio) che si innalza verso lo spazio aereo; in quello inferiore, e sotto terra, c’è uno scheletro attorno al quale le radici dell’albero formano una sorta di rete che lo accoglie come in un nido.
Anche Octavio Paz trattò il tema della divinità duale (vale a dire Ometéotl), non solo nel senso della coesistenza della vita e della morte ma nel tentativo di mostrare la terra come una specie di grande utero in cui la vita rinasce.
[…]
Non è meno significativo che la pittrice, nell’inserire implicitamente il suo personale riferimento al concetto mesoamericano della convergenza degli opposti abbia preferito enfatizzare la forma fallica del tronco per far risorgere da lì il soggetto ritratto, mostrando allo stesso tempo lo scheletro come un neonato circondato dalla placenta in una terra gravida come un corpo femminile.
Ma vale la pena considerare altri elementi utili a individuare i temi e lo stile di questo quadro di Frida. In effetti già Raquel Tibol ha identificato da una parte la coincidenza tra la biografia del soggetto e gli interessi scientifici della pittrice: «Come riaffermazione del suo precoce interesse per la biologia ha dipinto il ritratto allegorico dell’orticoltore californiano, saggio rinnovatore nel campo dell’ibridazione delle piante, Luther Burbank (1849-1926), rappresentato anche da Rivera nel murale del Pacific Stock Exchange Tower»; d’altra parte, nel descrivere il quadro dell’orticoltore ormai morto, segnala la vitalità della sua rappresentazione: «In quel ritratto Frida ha stabilito dei codici che ripeterà in seguito: il cielo dalle nuvole cariche, scale arbitrarie nelle dimensioni delle cose, foglie gigantesche per sottolineare la feracità della vita».
[…]Oltre al fatto evidente che in Retrato de Luther Burbank faccia coesistere vita e morte in un’opera destinata a essere vista negli Stati Uniti, Frida, nell’accettare la commissione di ritrarre un industriale statunitense dell’agricoltura agrumaria, approfitta dell’occasione – attraverso un procedimento di riferimento al passato culturale mesoamericano – per affrontare anche ironicamente un’attività agricola in un settore della potenza egemonica imperialista in cui è assolutamente necessaria la mano d’opera messicana.
In Mi nana y yo (1937) tanto la forma piramidale della composizione quanto il fondo del quadro e la maschera della balia alludono alla dea delle caverne di Teotihuacán. […]. C’è una chiara corrispondenza tra l’immagine femminile principale e il mondo in cui vive: il luogo sacro è la dea. Ciascun attributo fisico della balia ha il suo doppio nel paesaggio interiore: la sua pelle come la terra, il latte che scorre dalle pareti della caverna come una cascata invisibile. Nella concezione mitica anche l’identità tra la Dea e il suo mondo si presenta come una sorta di nodo di immagini e riflessi. Motivo per cui quel posto è un santuario. I poteri naturali si concentrano nella presenza divina ma questa, a sua volta, è distribuita nello spazio fisico.
[…]Tanto la Dea delle Caverne teotihuacana quanto la Nana condividono lo stesso tipo di paesaggio isolato: una caverna provvista di cascata. A conferma, di nuovo, della loro corrispondenza originale, entrambe sono provviste di segni di dualità: la dea è datrice di vita e morte, mentre la Nana ha una maschera funeraria – così come gli esemplari trovati nelle tombe dei dignitari teotihuacanos – mentre allatta l’Eletta. Da luogo generalmente appartato dove si celebrano le cerimonie del culto, il luogo sacro diventa insensibilmente il centro del mondo e si trasforma dunque nel luogo ideale: eden, paradiso al di fuori dalla realtà fisica. Come disse Octavio Paz a proposito della Ragazza dell’Assemblaggio di Duchamp: «Il centro del mondo – l’eden – coincide con la dea; o meglio: è la dea».
Così Frida Kahlo fa riferimento a questo quadro: «mia madre non mi ha potuto allattare perché mia sorella Cristina nacque undici mesi dopo di me. Fu una balia a nutrirmi, le lavavano i seni ogni volta che io mi accingevo a succhiarli. In uno dei miei quadri ci sono io, con la faccia da donna adulta e il corpo da bambina, in braccio alla mia balia, mentre il latte cade dai suoi seni come dal cielo».
[…]Da parte sua, Diego Rivera raccontò questo quadro nel suo testo Frida Kahlo y el arte mexicano: «Dipinse sua madre e la sua balia, sapendo che in realtà non conosce il suo viso; quello della balia nutrice è solamente una maschera india di dura pietra, e le sua ghiandole grappoli da cui gocciola il latte come fosse pioggia che feconda la terra, e lacrima che feconda il piacere». Sconosciuta e presente, si tratta dell’immagine della Gran Dea Madre.
Quest’immagine è una costante di tutta la cultura messicana dell’epoca. Per questo d’improvviso ci ritroviamo a leggere sotto voce una sezione quasi conclusiva di «Pietra di sole». Octavio Paz imprime alla sua dizione un distintivo tono di preghiera, forse perché il suo ritmo ha le commoventi qualità delle litanie alla Vergine. Quei versi formano un’unità perfettamente distinguibile nell’ultima strofa di una delle sue poesie più apprezzate. Sebbene non venga mai nominata, l’entità femminile a cui si dirige in questo caso Octavio Paz attraverso una serie di epiteti divini non è che Omicíhuatl, Nostra Signora della Dualità: «[…] vida y muerte / pactan en ti, señora de la noche, / torre de claridad, reina del alba, / virgen lunar, madre del agua madre, / cuerpo del mundo, casa de la muerte, / caigo sin fin desde mi nacimiento, / caigo en mí mismo sin tocar mi fondo, / recógeme en tus ojos, junta el polvo / disperso y reconcilia mis cenizas, / ata mis huesos divididos, sopla / sobre mi ser, entiérrame en tu tierra, / tu silencio dé paz al pensamieno, / contra sí mismo airado: / abre la mani, / señora de semillas que son días».
Il tema precolombiano del culto dei morti e il suo ingresso nella vita quotidiana riemerge in Frida l’anno successivo. In effetti, in Niña con máscara de calavera (1938) rinnova la coesistenza di vita e morte e tuttavia, così come nella tradizione mesoamericana, non si riferisce a essa come a una parte di un ciclo ma come componenti intrinseche di uno stesso piano esistenziale.
Niña con máscara de calavera incarna una figura mitica e archetipica nel proiettare non solo la sua stessa vita, ma anche quelle relazioni metafisiche, storiche e politiche che proclama come una parte necessaria e intrinseca della convivenza nella polis. Ancora una volta troviamo la fusione e la dissoluzione dei concetti binari nel ritrovarli applicati all’umanità e alla terra, alla cultura e alla natura. Non è quindi strano che Octavio Paz coicida in immagini che presentano attraverso la visione del linguaggio come un doppio del universo metafore in cui le corrispondenze e la critica encarnano e si dissolvono nel poema. In modo simile a Frida nella sua Niña con máscara de calavera il poeta disse nell’ottava strofa di «Noche, día, noche», una poesia in Árbol adentro (1976-1987): «Duerme bajo tus párpados / un impalpable pueblo: / ávidos torbellinos, / hijos del tacto, encarnan, / beben sangre, son formas / cambiantes del deseo / y son siempre la misma: / los rostros sucesivos / de la vida que es muerte, / de la muerte que es vida».
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