Il 30 maggio del 1994 moriva a Madrid il grande scrittore uruguayano Juan Carlos Onetti. Per ricordarlo, pubblichiamo oggi il suo discorso tenuto in occasione del Premio Cervantes, che gli fu assegnato nel 1980.
di Juan Carlos Onetti
traduzione di Giulia Zavagna
Io non ho mai saputo parlare, né bene, né male. L’eloquenza, attributo molto ispanico, mi è stata vietata. Parlo male in privato, per questo parlo poco nelle piccole riunioni tra amici, e parlo peggio in pubblico, ragione per cui sarebbe meglio per voi se non dicessi nulla. Ho sempre resistito a offerte, insistenze, incredulità, senza sapere che una fatalità inesorabile mi avrebbe obbligato a parlare pubblicamente, per la prima volta, in Spagna. Per la delusione dei miei ascoltatori, molti dei quali sono oratori magistrali, la mia goffaggine oratoria si è vista penosamente confermata. Oggi, tuttavia, mi presento davanti a voi con timorosa allegria perché, per una sola volta, sono disposto a parlare, non solo perché devo, ma perché voglio farlo.
Perché voglio manifestare a viva voce – o con una voce più o meno viva – la profondità della mia gratitudine nei confronti della Spagna. Il vecchio Eraclito l’Oscuro lasciò scritte queste parole sibilline: «Se non ti aspetti l’imprevisto, non lo incontrerai». Ho scoperto che, senza rendermene conto, c’è stato qualcosa che ho aspettato per tutta la vita, e che, inaspettatamente, mi è capitato di trovare in Spagna. Non mi riferisco a Premio Cervantes in sé, né a ciò che chiamano fama o gloria, ma a una forma di umanità, di amicizia, di cordialità, di comprensione che ho trovato qui, e che dubito sia diffusa in un’altra regione della terra con altrettanta generosità. Dico queste parole non solo pensando a me, ma a migliaia di figli dell’America che hanno trovato la loro nuova patria nella patria di Cervantes.
Che un uomo, alla mia età, si ritrovi all’improvviso circondato, senza meritarle, da tante forme d’amore e di comprensione, è già di per sé uno dei doni migliori che il destino gli possa riservare, un regalo degli dei, qualcosa che, disgraziatamente, accade molto di rado. Nel mio caso in particolare ho forse più motivi di altri di esserne grato: sono arrivato in Spagna con la convinzione di aver perso tutto, di essermi lasciato tutto alle spalle e che il futuro non poteva riservarmi nulla. Di fatto, non mi interessava più la mia vita come scrittore. E tuttavia, eccomi qui, diversi anni più tardi, sopravvissuto. Questa sopravita è la prima cosa che devo agli spagnoli. Questi anni di regali, nei quali ho ritrovato il piacere di scrivere, dopo tanto tempo. Mi sono convinto, grazie a questa terra generosa, di avere ancora qualcosa da dire, un penultimo granello di sabbia.
Poiché stiamo parlando di primizie spagnole, per quanto riguarda la mia persona, è conveniente che si sappia che la giuria del Premio Cervantes ha avuto in quest’occasione la chisciottesca idea di conferire una grande distinzione a qualcuno che fin dalla sua gioventù era abituato a essere un perdente sistematico, a uno che è sempre arrivato secondo, che fino a questo momento non aveva nessuna vittoria nel suo palmarès. Non riesco a smettere di pensare, a volte, all’ironica e compassionevole giustizia – o ingiustizia – di questo, per me, sorprendente risultato di cui mi avete fatto omaggio. Sempre cervantini, chisciotteschi, i membri della giuria hanno trasformato l’antico mulino a vento dei miei romanzi in un superbo gigante Briareo con cento braccia.
Ho letto Cervantes, in particolare il Chisciotte, innumerevoli volte. Quando lo scoprii ero solo un bambino, e spero di poterlo rileggere ancora una volta, almeno, prima di morire. Ciò che non sono mai riuscito a immaginare, nemmeno nei momenti più deliranti della mia esistenza, è che il mio nome potesse essere unito al suo. Oggi, per meriti che altri hanno senz’altro sopravvalutato, è proprio così. Vi sono grato di questo delirio, perfino superiore al mio. Per quanto mi riguarda, in ogni caso, è impossibile immaginare un maggior motivo di emozione e di orgoglio. Per me e per ogni romanziere autentico.
Ho detto che sono fin dall’infanzia un inveterato e fervente lettore di Cervantes. Tutti i romanzieri, in qualunque lingua scrivano, sono debitori di quell’uomo disgraziato e del suo miglior romanzo, che è anche il primo e il miglior romanzo che sia mai stato scritto. Un romanzo che tutti abbiamo saccheggiato, per secoli, e che, nonostante noi e una depredazione tanto reiterata, si mantiene, come il primo giorno, inmmutato, misterioso, trasparente e puro.
Nonostante siano qui presenti oggi molte persone molto più colte e talentuose di me, e nonostante io provenga, come provengo, da un lontano sobborgo della lingua spagnola, oserò dare una timida opinione personale su uno degli incontabili valori dell’opera di Cervantes e, in particolare, del Chisciotte.
L’impostazione del libro, la sua essenziale libertà creativa e immaginativa segnano il modello, conquistano il terreno illimitato in cui sorgerà e si svilupperà ogni romanzo successivo. Il meraviglioso intreccio della più cruda realtà e della fantasia più esaltata, la magia prodigiosa di dare vita permanente a tutto ciò che la mano dell’autore, quasi senza rendersene conto, sfiora, sono virtù che sono state, e sempre saranno elogiate, applaudite e commentate.
In questo caso non farò riferimento all’estetica, alla tecnica narrativa né alla creazione romanzasca di Cervantes, ma a un altro sostantivo, sempre così prossimo alla vera poesia, e che ho menzionato appena: la libertà. Perché il Chisciotte è, tra le altre cose, un esempio supremo di libertà e di ansia di libertà.
Un mio carissimo amico, il grande poeta Luis Rosales, ha opportunamente intitolato uno dei suoi libri esattamente così: Cervantes e la libertà. Niente di più opportuno, perché la libertà è stata sempre una delle preoccupazioni principali, per tutti gli uomini sensibili e intelligenti.
La libertà che oggi respiriamo, semplicemente, senza sforzi, quasi senza rendercene conto. La libertà che a molti sembra triviale, noiosa, insignificante. Io, che ho conosciuto la libertà, e anche la sua scarsità o assenza, posso permettermi di chiedere che continui a essere sempre così: un’aria abituale, priva di profumi esotici, che si respira insieme all’ossigeno, senza pensarci, ma coscienti del fatto che esista.
Trovando rifugio in questa comprensione, in questo senso dell’umorismo (che non è un’invenzione esclusivamente britannica, ma anche e principalmente spagnola), protetto in questo modo, mi permetto di dichiarare che io, se avessi il potere sufficiente, che non avrò mai, porrei un solo veto alla libertà individuale: decreterei, universalmente, la lettura obbligatoria del Chisciotte.
Dichiarò Flaubert, forse con eccessiva ingenuità, che se i governanti del suo tempo avessero letto L’educazione sentimentale, la guerra franco-prussiana non sarebbe mai scoppiata. Da parte mia, gli chiederei che leggessero Cervantes, il Chisciotte. Sono certo che se lo facessero, il nostro mondo sarebbe un po’ migliore, meno cieco e meno egoista.
La Libertà che devo alla Spagna la devo anche, come tutti gli spagnoli e non che vivono su questo territorio, principalmente al suo Re. Io, che ho subito amaramente anni fa la sconfitta di un legittimo governo spagnolo, e che sono stato per tutta la vita un democratico convinto, non avrei mai immaginato che un giorno sarei arrivato a fare un elogio pubblico e sincero a un Re, a un monarca in quanto tale, vale a dire: per il fatto stesso di esercitare il governo dello Stato. Oggi lo faccio con fervore, e vorrei che tutte le repubbliche latinoamericane lo sapessero.
Il fantasma di quel manco desvalido, sopraffatto dai debiti, veglia e sa che non mento, che ho detto la verità, onestamente.
Chiedo il permesso ai signori accademici di citare una vecchia frase latina: Ubi Libertas Ibi Patria.
Grazie, Maestà; grazie, Spagna.
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