La seconda parte di una magistrale crónica di Leila Guerriero, che riflette sul giornalismo narrativo, le sue origini e le sue ragioni. Il pezzo è stato pubblicato su Anfibia, che ringraziamo, e fa parte della raccolta Zona de obras (Anagrama). Qui potete leggere la prima parte.
di Leila Guerriero
traduzione di Arianna Cinque
[Leggi qui la prima parte della crónica]
«Credo che la crónica», diceva il giornalista venezuelano Boris Muñoz, in una conferenza sull’argomento del 2008 circa, «debba conciliare lo sguardo soggettivo con l’esperienza transoggettiva e, in questo modo, arrivare all’esperienza collettiva. L’importanza di quanto narrato deve trascendere ciò che è meramente soggettivo e collegarsi, in modi che a volte risultano essere prospettive impreviste, a un interesse collettivo. Solo così è possibile rivelare il lato occulto o poco visibile delle cose e trasmetterlo al pubblico. […] Tuttavia, per ottenere una buona crónica, non occorre solo del talento e una buona penna, ma anche una grande capacità di osservazione della realtà e uno sguardo in qualche modo disciplinato. Direi che occorre una buona dose di un particolare tipo di entusiasmo, perché si tratta di un entusiasmo disciplinato e critico – a volte perfino scettico – rispetto a quanto si osserva. Questa somma di elementi si verifica solo di tanto in tanto».
E se, come dice Muñoz, si verifica solo di tanto in tanto, quando si verifica risulta accecante.
Migliaia di abitanti di New York negli anni Quaranta si imbattono ogni giorno in un mendicante di nome Joe Gould, che deambula per il Greenwich Village e assicura che sta scrivendo un libro monumentale, ma nessuno gli presta attenzione, finché un giornalista del New Yorker, un signore discreto di nome Joseph Mitchell, vi intravede del materiale interessante, lo segue e lo intervista, e scrive un profilo intitolato Il segreto di Joe Gould che diventa, con il tempo, una delle grandi opere del giornalismo narrativo.
Migliaia di giornalisti intervistano Frank Sinatra, ma un giorno un signore di nome Gay Talese scrive, senza scambiare mezza parola con lui, un profilo intitolato Frank Sinatra ha il raffreddore che diventa, con il tempo, il profilo dei profili.
Migliaia di giornalisti vanno in Vietnam e raccontano gli orrori della guerra eppure, quando la guerra finisce, arriva in Giappone un uomo di nome John Hersey e non racconta la storia della guerra, ma quella di sei persone – un tedesco e cinque giapponesi – che erano presenti quando scoppiò la bomba a Hiroshima, e scrive un articolo per il New Yorker e poi un libro intitolato Hiroshima, che diventa, con il tempo, il miglior libro di non fiction mai scritto.
Migliaia di giornalisti hanno parlato di crociere ai Caraibi, ma un giorno uno scrittore e giornalista di nome David Foster Wallace sale su una di queste navi da crociera e scrive qualcosa del tipo: «Ho visto spiagge di saccarosio e acque di un azzurro intensissimo. Ho notato l’odore della lozione abbronzante estendersi su diecimila chili di carne calda. […] Ho visto tramonti che sembravano modificati al computer e una luna tropicale che sembrava più una specie di limone oscenamente grande e sospeso che la vecchia luna di pietra degli Stati Uniti alla quale sono abituato», in un testo intitolato Una cosa divertente che non farò mai più, che diventa, con il tempo, un testo di riferimento che fa sì che nessuno possa scrivere di nuovo di una crociera ai Caraibi senza pensare a quanto scritto da David Foster Wallace.
E tutti questi articoli e tutti questi libri parlano di quello di cui parlano – di Joe Gould, di Frank Sinatra, di Hiroshima, di crociere ai Caraibi – ma parlano anche di altre cose. Joseph Mitchell parla di Joe Gould ma anche delle bugie che inventiamo perché la vita ci risulti meno insopportabile. Gay Talese parla di Frank Sinatra, ma anche del nostro narcisismo. John Hersey parla di Hiroshima, ma anche delle conseguenze di tutte le nostre azioni. E David Foster Wallace parla di una crociera ai Caraibi, ma anche della nostra lotta aggressiva e disperata contro la consapevolezza della morte e della putrefazione.
Potremmo dire, allora, che il giornalismo narrativo è uno sguardo, una forma narrativa e una maniera di addentrarsi nelle storie. Tuttavia, ovviamente, non è un cocktail: nessuno potrebbe affermare che sommando due parti di un buon che cosa, aggiungendo un pizzico di un grande come e una rifinitura con un autore e un’oliva si otterrà, come risultato, un buon pezzo di giornalismo narrativo.
Nel suo testo «La crónica, ornitorrinco de la prosa», lo scrittore e giornalista messicano Juan Villoro, diceva, definendo il genere della crónica, che «dal romanzo estrae la condizione soggettiva, la capacità di narrare dalla prospettiva dei personaggi e creare un’illusione di vita per collocare il lettore al centro dei fatti; dal reportage, i dati immodificabili; dal racconto, il senso drammatico in uno spazio breve e l’idea che la realtà accade per narrare un racconto deliberato, con un finale che lo giustifica; dall’intervista, i dialoghi; e dal teatro moderno la forma di montarli; dal teatro grecolatino, la polifonia dei testimoni, i parlamenti intesi come dibattito: la “voce del proscenio”, come la definisce Wolfe, versione narrativa dell’opinione pubblica il cui precedente era il coro greco; dal saggio, la possibilità di argomentare e collegare saperi dispersi; dall’autobiografia, il tono memoriale e la rielaborazione in prima persona. L’inventario di influenze può essere più esteso e dettagliato fino a competere con l’infinito. Usato in eccesso, qualsiasi di questi ingredienti risulta stucchevole. La crónica è un animale il cui equilibrio biologico dipende dal non essere come i sette diversi animali che potrebbe essere».
I buoni testi di giornalismo narrativo si nutrono di altri buoni testi di giornalismo narrativo ma anche, e soprattutto, della letteratura di fiction, del fumetto, del cinema, della fotografia, della poesia. Un giornalista può imparare meglio come generare suspense leggendo un romanzo di John Irving che qualsiasi manuale di giornalismo; un giornalista può apprendere di più su come creare diverse voci guardando il film The New World – Il nuovo mondo, di Terrence Malick, che in qualsiasi manuale di giornalismo.
Nel suo prologo a The Literary Journalists, Norman Sims sostiene che Mark Kramer, cercando di spiegargli le differenze tra il giornalismo letterario e le forme tradizionali di non fiction, gli disse questo: «Ancora mi entusiasma la forma del giornalismo letterario. È come un piano Steinway. È al servizio di tutta l’arte che tu possa metterci. Puoi mettere Glenn Gould in uno Steinway e lo Steinway continua a essere migliore di Glenn Gould. È abbastanza buono da contenere tutta l’arte che tu riesca a riporvi. E qualcosa in più».
Forse è per questo, perché il buon giornalismo narrativo può essere definito arte e perché sfrutta risorse della fiction, che, a volte, si crea confusione. Perché di tutte le risorse della fiction cui possa far ricorso ce n’è una che è vietata al giornalismo narrativo. E questa risorsa è la risorsa dell’invenzione.
Di recente, dato che un editore della rivista argentina Ñ mi ha commissionato un pezzo sullo scandalo sorto da una biografia del giornalista polacco Ryzard Kapuściński nella quale l’autore sembra mettere in evidenza che Kapuściński non fu del tutto fedele alla realtà, ho scritto un pezzo di cui riporto una parte, non per pigrizia ma perché non esistono cento modi di pensare la stessa cosa. Dicevo, in quel testo, quanto segue:
Se la domanda è qual è il limite tra giornalismo e fiction, la risposte è semplice: non inventare.
La potenza delle storie reali risiede nel fatto che sono, per l’appunto, reali: succedono, sono successe. Non è la stessa cosa leggere di un dittatore immaginario che uccide migliaia di tizi nel romanzo ics, che leggere di un dittatore in carne e ossa che taglia le orecchie del nemico in un paese che ci capita di prendere in considerazione per le nostre future, e molto reali, vacanze. Il –tacito – accordo è che le storie di non fiction non contengano allusioni fantasiose, ed è un accordo che dovrebbe essere rispettato perché, se un testo di fiction di bassa qualità colloca il lettore nell’insignificante terreno della noia, un testo di non fiction con situazioni inventate colloca il lettore nel pericoloso terreno dell’inganno.
Esiste, in ogni caso, la menzogna dell’obiettività. Il giornalismo – letterario o no – è l’opposto dell’obiettività. È uno sguardo, una visione del mondo, una soggettività onesta: «Sono andato, ho visto, racconterò ciò che onestamente credo di aver visto». Direte che in quel «credo» stia la trappola. E invece no. Perché un giornalista valuterà i decibel di dolore, ricchezza e malvagità del prossimo secondo la propria filosofia e la propria gastrite, ed è perfino possibile che un giornalista di Londra e un altro della provincia argentina di Formosa abbiano percezioni opposte riguardo a quando una persona possa essere considerata pelata, se una serata è triste o una città è brutta, ma ciò che non dovrebbero avere sono le allucinazioni: ascoltare ciò che la gente non dice, vedere bambini affamati laddove non ve ne sono, immaginare di essere attaccati da un commando nel mezzo della foresta mentre si è a mollo nella piscina dell’hotel sorseggiando un bloody mary.
È ovvio che inserire un aggettivo al punto giusto non significa fare fiction; scrivere una descrizione efficace non è fare fiction; utilizzare un linguaggio per raggiungere atmosfere e suspense non è fare fiction. Questo si chiama, da sempre, scrivere bene.
Se si confonde la buona scrittura con la fiction siamo perduti.
Se si confonde l’esercizio di uno sguardo con la fiction siamo perduti.
E se diciamo ai lettori che, a volte, è lecito aggiungere un personaggio qui ed esagerare una sparatoria lì, anche in quel caso siamo perduti. Perché la risposta a questa domanda – perché non si chiariscono queste aggiunte? Perché non si chiarisce che un testo con queste esagerazioni è quello che è: un testo di fiction? – non sarà, non può essere, una risposta innocente.
Un giornalista che si definisca tale, non adatta i fatti a propria convenienza, non crea pezzi di un puzzle solo perché quelli che ha non si incastrano e non scrive le cose come avrebbe voluto che accadessero. Non ho letto la biografia di Kapuściński, per cui non sto parlando di questo. Sto parlando di qualcosa di più semplice: di ciò in cui credo. Di ciò in cui, succeda quello che succeda, non smetterò mai di credere.
Così terminava il testo che ho scritto allora e, sebbene siano trascorsi vari mesi, e continuo a non aver letto la biografia di Kapuściński, penso ancora le stesse cose. A quanto pare, non sono l’unica.
Nel libro The Literary Journalists, Norman Sims afferma che: «Contrariamente ai romanzieri, i giornalisti letterari devono essere esatti. Ai personaggi del giornalismo letterario si deve dar vita sulla carta, esattamente come nei romanzi, ma le sensazioni e i momenti drammatici hanno un potere speciale perché sappiamo che le loro storie sono reali». Nello stesso libro, il giornalista John McPhee sostiene: «Una cosa è dire che la non fiction si è sviluppata nel tempo come arte. Se con questo si intende che la linea tra la fiction e la non fiction si sta cancellando, allora preferirei un’immagine diversa. Ciò che vedo in questa immagine è che non sappiamo dove finisce la fiction e dove iniziano i fatti. Questa è una violazione dell’accordo con il lettore».
Nel libro Writing Creative Nonfiction: The Literature of Reality , Gay Talese dice «Scrivo non fiction come forma di scrittura creativa. Creativa non vuol dire falsa: non invento nomi, non fondo persone per costruire personaggi, non mi prendo la libertà di inventare dati; conosco persone reali attraverso la ricerca, la fiducia e la costruzione di relazioni. […] Lo scrittore di non fiction racconta al lettore persone reali in luoghi reali. Per cui, se queste persone parlano, riporta ciò che hanno detto. Non dice quello che lo scrittore decide che hanno detto».
È vero che ogni pezzo di giornalismo è una versione della realtà: la descrizione del luogo in cui vive una persona è una descrizione del luogo in cui vive una persona e non un inventario dei mobili che possiede. L’essenza del giornalismo narrativo è proprio lì: nella differenza tra raccontare una storia e fare un inventario. Ma per quanto questa versione dipenda da molte cose – dal punto di vista del giornalista, dalla sua esperienza, dal suo olfatto – non consiste nell’omissione di ciò che ci risulta scomodo, nell’inclusione di quello che ci risulta comodo e nell’invenzione di tutto quello che ci sembra necessario. Le storie reali – lo sappiamo noi che le scriviamo, lo sa chi le legge e lo sa chi aggiunge ai propri film e ai propri romanzi la dicitura «Basato su una storia vera» – hanno una potenza diversa proprio perché sono reali. Forse conoscerete il caso della giornalista del Washington Post che, nel 1980, vinse il premio Pulitzer grazie al testo intitolato «Jimmy’s World», nel quale narrava la storia di un bambino di otto anni eroinomane. «Jimmy», scriveva Cooke, «a otto anni di età è un tossicodipendente eroinomane di terza generazione. […] Lo è da quando aveva cinque anni. […] Il mondo di Jimmy è fatto di droghe pesanti, soldi facili e della buona vita che crede che tutto ciò possa portargli. Ogni giorno, i tossici comprano cocaina da Ron, l’amante di sua madre, nel salone di casa di Jimmy. La “cuociono” in cucina e se la iniettano nelle stanze da letto. E ogni giorno Ron o qualcun altro la inietta a Jimmy, infilandogli un ago nel braccio ossuto e mandandolo al quarto grado di stordimento ipnotico». La storia ebbe un forte impatto, migliaia di lettori chiamarono il giornale per offrirsi di salvare il bimbo, e la giornalista rifiutò di rivelare dove si trovasse, per mantere segrete le sue fonti. Tuttavia, quando gli ispettori di polizia iniziarono a cercare il giovane eroinomane e non riuscirono a trovare una sola traccia del bambino o della sua famiglia, la donna confessò che aveva inventato tutto e fu costretta a restituire il premio. A quanto pare, aveva composto il pezzo a partire da interviste ad assistenti sociali specializzati in casi del genere, e Jimmy era una tipificazione: la condensazione di molti Jimmy. Poco dopo, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez avrebbe affermato che il peccato della Cooke era stato quello di aver messo in dubbio il dogma centrale del discorso giornalistico anglosassone –l’oggettività informativa – e sosteneva che pur non essendo vero, il racconto era verosimile, in quanto l’autrice, come afferma Albert Chillón nel suo libro Literatura y periodismo «ha saputo condensare in Jimmy e nel relativo contesto individui e fatti autentici con i quali è entrata in contatto durante i mesi di ricerca».
Io, mi perdonerete, credo che queste siano spiegazioni buone per i giornalisti. Credo che se a un lettore comune che ha appena finito di leggere pagine e pagine sulla storia di un eroinomane di otto anni svelassimo che tutto quello che ha appena letto è un’invenzione, non avrebbe voglia di mettersi a pensare alle differenze tra vero e verosimile, ma di mandarci a quel paese.
Per fare un esempio molto grossolano, credo che chiunque sarebbe in grado di capire la differenza tra un romanzo su un cane che parla e un – ipotetico – articolo giornalistico su un cane che parla. Laddove un romanzo su un cane che parla ci porrebbe al limite dell’assurdo e ci chiederebbe di diventare complici di una menzogna difficile da accettare, un articolo giornalistico su un cane che parla ci porrebbe al limite della meraviglia e ci chiederebbe di osservare, ammirati, una realtà all’apparenza impossibile.
Ovvio, tra il caso della giornalista Janet Cooke e l’impiego di certi stratagemmi, vi sono molte sfumature.
Nel libro The New Journalism, che contiene interviste a reporter nordamericani della generazione successiva a quella di Tom Wolfe, Jonathan Harr, che impiegò otto anni a scrivere Azione civile, un libro su una causa giudiziaria intentata da famiglie che sostenevano che i propri figli si fossero ammalati di leucemia dopo aver bevuto acqua inquinata dagli scarichi di una conceria, dice, sull’impiego in quel testo di monologhi interni di alcuni personaggi:
Io non leggo le menti e non invento, quindi ho ovviamente dovuto chiedere a lui (al mio personaggio) che cosa stesse pensando. […] E mi prendo la libertà di mettergli quel pensiero in testa in un preciso momento, mentre sta guardando fuori dalla finestra. […] Se le leggi della non fiction stabilissero che si può scrivere solo la verità letterale, allora sarei stato obbligato a scrivere: «Scrittore vede Conway che guarda fuori dalla finestra, gli chiede a cosa stia pensando (perché scrittore non può leggere le menti) e Conway dice a scrittore “Prima che mi interrompesse stavo pensando…”» Significa che mi sto prendendo licenze imperdonabili nei riguardi della verità assoluta e perfetta? […] Io non invento dialoghi. A volte comprimo dialoghi, ma questo è completamente diverso da inventare. […] Il mio scopo è la fedeltà al limite del possibile, rendendo, allo stesso tempo, agevole la lettura del brano. Ad esempio, a volte ci vogliono una decina di domande per ottenere una semplice risposta da un avvocato. Nel libro eliminerei le infinite ripetizioni senza usare ellissi e andrei dritto alle risposte […]. Se non mi si consente questa licenza, allora mi si pone nella posizione di copiare semplicemente l’intera trascrizione giudiziaria. E questo non è scrivere.
In The New Journalism, Tom Wolfe afferma:
A volte ho usato il punto di vista per entrare nella mente di un personaggio, per vivere il mondo attraverso il suo sistema nervoso centrale durante una determinata scena. Quando ho scritto di Phil Spector ho iniziato l’articolo non solo nella sua mente, ma con un monologo interno virtuale. Una rivista ha ritenuto il mio articolo su Spector un’impresa inverosimile, perché lo intervistarono e gli chiesero se non pensava che quel brano fosse finzione che si stava appropriando del suo nome. Spector rispose che, di fatto, gli sembrava assolutamente esatto. Non vi era nulla di sorprendente, in quanto ogni dettaglio di quel brano era estrapolato da una lunga intervista con Spector su come si fosse sentito esattamente in quell’occasione.
Con i dovuti distinguo, un anno fa ho raccontato la storia del restauro del teatro Colón di Buenos Aires. Trascorsi settimane parlando con molte persone e un giorno mi imbattei in Miguel Cisterna, un cileno arrivato da Parigi per farsi carico del restauro del sipario originale. L’impresa che l’aveva assunto lo manteneva in isolamento e gli impediva – per motivi sindacali – di avere contatti con i lavoratori storici della sala che, senza conoscerlo, tessevano su di lui le ipotesi più malefiche: che stava disfacendo il sipario, che lo aveva abbandonato in un posto pieno di topi. La verità era che Cisterna aveva attraversato l’oceano in cambio di pochissimi soldi, che viveva in un hotel squallido e che era disposto a tutto pur di salvare quel reperto storico. Alla fine, fu lui il filo conduttore di quella storia che iniziava con la sua voce che diceva:
Io, tra tutti gli uomini. Io, nato a Lota, Cile, un paese un tempo miniera di carbone che ora è storia. Io, cinquant’anni appena compiuti in una città del sud del mondo in cui mi trovo da otto mesi e che ancora non conosco. Io, tra tutti gli uomini. Io, che sognavo a Lota tele squisite, e che me ne andai a Parigi, giovanissimo, per studiarle, per vivere con loro. Io, le mani immerse in questo velluto ricamato ottant’anni fa da uomini e donne che sapevano quello che facevano. Io, qui, in questo spazio circolare, solo, intrappolato, muto, le porte chiuse da lucchetti affinché nessuno sappia. Io, il più odiato, il più occulto, il nascosto. Io, tra tutti gli uomini, scorro le mani su questa tela scura come sangue spesso che si insinua nel mio sonno e nella mia veglia e a cui dico parlami, dimmi che cosa voleva per te chi ti ha dato vita. Io, Miguel Cisterna, cileno, residente a Parigi, abitante passeggero di Buenos Aires, solo, occulto, rinnegato, murato, impazzito, ossessionato, sono quello che sa. Sono quello che ricama. Io sono l’uomo del sipario.
Avevo per caso inventato qualcosa? Niente. Nemmeno una virgola. Neppura la sua forma di eloquio, che oscillava tra il dandismo colto e le esaltazioni della poesia modernista. Sapevo dove fosse nato Miguel Cisterna, conoscevo i suoi sogni di ragazzo, sapevo cosa provasse per il sipario, per il teatro, per Buenos Aires, e tutte quelle cose le sapevo perché, per settimane, lo avevo visto lavorare e soffrire, reclamare e indignarsi, lo avevo ascoltato parlarmi di tutto quello che aveva a Parigi – i figli Horacio e Hortensia, l’atelier gremito di celebrità, la vita da europeo squisito – e del poco che avesse a Buenos Aires: un hotel umile, un frigorifero pieno di muffa e cene nella più profonda solitudine nelle quali, mentre mangiava empanadas fredde, pensava al sipario e gli chiedeva di parlargli: di dirgli che cosa volesse per sé. È ovvio che avrei potuto scrivere anche: «Miguel Cisterna è cileno e si occupa del restauro del sipario del teatro dell’opera più importante di Buenos Aires». Le informazioni sarebbero state le stesse. Ma, sarebbero state le stesse?
Ora vorrei chiedervi un esercizio di memoria.
Di pensare a un periodo in cui niente di tutto ciò esisteva. Pensate, ricordate, cercate: com’era la vostra vita nel 1995, nel 1996, nel 1997, se avevate più di diciotto anni? Avevate sentito parlare di Ryszard Kapuściński, di John McPhee, di Juan Villoro, di Gay Talese, di Alberto Salcedo Ramos, di Susan Orlean? Avevate ascoltato le parole «giornalismo narrativo»? Non so come fosse la vita di ciascuno di voi, ma so com’era la mia. So che all’inizio degli anni Novanta avevo un computer con un monitor della grandezza di una cassetta di frutta, il cui unico collegamento al mondo esterno era il cavo dell’elettricità. So che mi era costato tre stipendi del giornale in cui lavoravo, e che dubitai molto se comprarmi quel macigno, il cui futuro era incerto, o una macchina da scrivere elettrica. Era un’epoca in cui il miglior vino che potevo comprare era il peggior vino che vendevano nel supermercato cinese e non solo non avevo letto Kapuściński, ma non sapevo neppure chi fosse. So che nessuno dei miei conoscenti nominava un tipo chiamato Gay Talese con la sicurezza con cui mi nomina un suo zio, e il contatto più prossimo che avevo avuto con Tom Wolfe era un film intitolato Il falò delle vanità, con protagonisti Tom Hanks e Melanie Griffith, che ancora non si era immolata sull’altare del botox. E so che non volevo fare la giornalista narrativa, né la neogiornalista, né la giornalista letteraria, né la cronista; io volevo fare la giornalista: qualcuno che racconta storia reali e che fa di tutto per raccontarle bene.
Ma ora, a quanto pare, vogliamo fare tutti i giornalisti narrativi, come se fare il giornalista narrativo fosse un’istanza superiore, sublime, qualcosa di meglio e di più grande rispetto al giornalista puro e semplice. L’effetto collaterale è che, in nome del giornalismo narrativo, si pubblicano testi che dicono di essere qualcosa che non sono e si fingono quello che non saranno mai. È l’effetto gourmet: lo stesso pollo al limone con purea di patate di sempre trasformato in polletto cotto nei suoi succhi, marinato in agrumi, accompagnato da una vellutata di patate, che costa venti euro di più.
Per questo, ricordate come eravate e chiedetevi: è questo quello che volevo fare? Se la risposta è no, che non siete disposti, che non avete voglia, che non avete pazienza, congratulazioni: il giornalismo è un fiume che si dirama e offre molteplici correnti navigabili. Ma se la risposta è sì, ho brutte notizie per voi: qualora doveste essere bravi, qualora doveste far bene il vostro lavoro, è probabile che avrete, prima o poi, uno, qualcuno, o tutti questi sintomi: avvertirete il panico di mancare la verità, di non essere giusti, di essere prevenuti, di non aver fatto sufficienti ricerche; avrete il pudore di autoplagiarvi e il terrore di plagiare altri. Odierete il lavoro sul campo e altre volte odierete scrivere e altre volte odierete entrambe le cose. Avvertirete una malsana curiosità per individui con i quali, in circostanze normali, non vi siedereste a bere un bicchier d’acqua. Quando inizierete a scrivere, scoprirete che il corpo fa male, che i giorni di clausura si accumulano, che i verbi si accavallano, che le frasi perdono il ritmo, che il tono se la svigna. E, una volta finito di scrivere, vi sentirete vuoti, esausti, inutili, impacciati, ma vi sentirete sollevati. E allora, sulla scia di questo sollievo, vi direte: mai più. E nei giorni successivi, sulla scia di questo sollievo, vi ripeterete, convintissimi: mai più. E vi sembrerà perfino un buon proposito.
Ma una notte, in un bar, ascolterete una storia straordinaria.
E poi una mattina, a colazione, leggerete sul giornale una storia straordinaria.
E un altro giorno, in televisione, vedrete un documentario su una storia straordinaria.
E sentirete un tuffo al cuore.
E sarete perduti.
Ed essere perduti sarà la vostra salvezza.
Resta, infine, da chiedersi se abbia senso. Se nel regno di twitter e dell’online, se in tempi in cui i media chiedono sempre più velocità e sempre più brevità, il giornalismo narrativo abbia senso. La mia risposta, testarda e ottimista, è sì e, potrei aggiungere, più che mai.
Sì, perché non mi immagino un mondo in cui le persone non siano persone, ma «fonti», dove le case non siano case, ma «il luogo dei fatti», dove le persone non dicano cose, ma «riportino testimonianze».
Sì, perché rifuggo un mondo piatto, di buoni contro cattivi, di indignati contro indignanti, di vittime contro carnefici.
Sì, perché laddove un altro giornalismo batte il pugno sul tavolo e dice che assurdità, il giornalismo narrativo si concede il beneficio del dubbio, dipinge le sfumature, dice non ci sono cattivi senza buoni, dice non ci sono buoni senza cattivi.
Sì, perché il giornalismo narrativo non è la vita, ma uno scorcio di vita.
Sì, perché è necessario.
Sì, perché aiuta a comprendere. Anni fa lessi un libro intitolato Il tè nel deserto in cui l’autore, Paul Bowles, scrisse la frase più angosciante che abbia mai letto. «La morte», dice Paul Bowles, «è sempre in cammino, ma il fatto che non sai quando arriverà sembra togliere importanza al fatto che la vita è limitata. È proprio quella terribile inesorabilità che noi tanto detestiamo. Ma poiché non sappiamo, finiamo per pensare alla vita come a un pozzo inesauribile. Eppure ogni cosa accade soltanto un certo numero di volte, e un ben piccolo numero, in effetti. Quante altre volte ricorderai un certo pomeriggio della tua infanzia, un pomeriggio che faccia così profondamente parte del tuo essere per cui tu non puoi nemmeno concepire la tua vita senza quelle ore? Forse altre quattro o cinque volte. Forse nemmeno. Quante altre volte guarderai sorgere la luna piena? Forse venti. E, tuttavia, tutto sembra senza limiti».
Io ho sempre saputo che sarei morta, ma la frase di Paul Bowles mi ha fatto capire che ho i giorni contati. Quante altre volte verrò in Spagna; quante altre volte visiterò Santander; quante altre volte ricorderò questo pomeriggio? Forse altre due volte. Forse nemmeno. E, tuttavia, tutto sembra senza limiti.
Il giornalismo narrativo è l’equivalente della frase di Paul Bowles. Laddove altri parlano della terribile tragedia e dell’increscioso fatto, il giornalismo narrativo ci sussurra due parole, ma sono parole che ci stringono il cuore, che ci lasciano di sasso e che, soprattutto, ci risvegliano.
© Leila Guerriero, 2010. Tutti i diritti riservati.
Condividi