In merito al progetto sulle Giornate della Traduzione letteraria, pubblichiamo oggi un’intervista a Roberto Serrai, traduttore e revisore di narrativa e saggistica. Tra gli ultimi autori che ha tradotto ci sono Francis Scott Fitzgerald, Cristina Henríquez, Vikram Paralkar e Ali Eskandarian.
Ringraziamo il traduttore per averci concesso questa intervista e per aver condiviso la sua esperienza. Buona lettura.
Edizioni SUR: Spesso chi desidera avvicinarsi alla traduzione, oltre a una grande passione per la letteratura, ha studiato una o più lingue straniere. Conoscere una lingua a un livello avanzato non è però sinonimo di essere dei buoni traduttori. Da cosa dipende una buona resa del testo, oltre che da una conoscenza approfondita della propria lingua madre? Studio, letture o una dote innata?
Roberto Serrai: Direi un po’ tutte queste cose (con una precisazione che farò sulla «dote innata»). Un testo è sempre un meccanismo che produce senso. Il traduttore deve capire come funziona, smontarlo, e poi rimontarlo nella sua lingua madre. Senza cambiarlo, senza metterci qualcosa di suo che prima non c’era (a parte la sensibilità, ovvio), senza lasciare fuori più dell’inevitabile. Ritengo che, per riconoscere le modalità in cui un testo significa, una certa esperienza ermeneutica sia molto utile. Dico sempre, non a caso, che una traduzione è un saggio critico sotto mentite spoglie. Non mi spingo fino ad affermare che l’esperienza di cui sopra sia indispensabile, ma solo perché nel mio caso il problema non si è posto. All’università ci insegnavano a smontare e rimontare i testi bendati, come fa un Marine col proprio fucile (e qualcosa ogni tanto mi sfugge lo stesso). Le letture sono, queste sì, fondamentali. Bisogna leggere di tutto, e di continuo. Una frase a effetto che uso spesso (con gli studenti) è «da Fabio Volo a Wittgenstein». Gli studenti reagiscono con facce schifate ma bisogna fare così, e io lo faccio. Anche perché può capitare di lavorare su testi che non ci piacciono, o su testi francamente brutti, o che per snobismo neanche prenderemmo in mano. Però dal nostro punto di vista, operaio e di servizio, vanno trattati con lo stesso rispetto di un capolavoro della letteratura mondiale. Essere lettori onnivori, dunque, oltre a mantenere allenati nella pratica di certi lessici e registri linguistici (e qui entra in gioco la conoscenza della propria lingua madre, che non bisogna mai smettere di coltivare – e lo si fa non solo leggendo, ma anche ascoltando e scrivendo), previene brutte sorprese, ed evita di tradurre Fabio Volo come Wittgenstein (o viceversa). Torno alla dote innata. Non credo esista. Io non ce l’ho, almeno. Davvero. A volte, tuttavia, capita di lavorare su testi con i quali si entra in sintonia a un livello tale che si resta sgomenti. Si ride, si soffre, si piange, si ha paura. Vita e lavoro si mescolano. Tradurre diventa (l’accostamento è di Bianciardi) davvero, per intensità e sofferenza, «bere l’amaro calice fino in fondo» (il lettore può scegliere, anche inconsciamente, di non vedere certe cose, noi no). In quei casi, forse, non si produce «solo» un metatesto corretto e fedele (nel senso di rispettoso), ma anche, se tutto va bene, qualcosa di esteticamente bello. Ma non ritengo sia una dote innata. Sennò invece del curriculum converrebbe far girare direttamente la mappa cromosomica.
ES: Tradurre autori viventi vs tradurre classici. Quanto è importante il confronto con l’autore? Quando non è possibile contattarlo come cambia l’approccio al testo?
RS: Domanda complicata. Io, anche quando potrei, cerco di evitare il più possibile il confronto con l’autore. Questo, attenzione, solo mentre lavoro. Perché per esempio con Anne Michaels e Alissa York ho avuto dialoghi bellissimi, ma sempre dopo la consegna delle traduzioni. Prima voglio fare da solo. Non è presunzione. Credo che un autore quando pubblica qualcosa si aspetti che chi lo legge (e quindi anche chi lo traduce) non abbia bisogno di andargli a chiedere niente, per capirlo. E che un editore, da me, si aspetti che non abbia bisogno di aiuti esterni. A volte vedo traduzioni altrui (in bozza) costellate di «chiedere a lui/lei». Niente da ridire ma per quanto mi riguarda, come traduttore, non farebbe bene alla mia già precaria autostima e dunque finché posso lo evito. Preferisco perdere una giornata su un paragrafo che alzare (sempre dal mio punto di vista) bandiera bianca. Semmai segnalo alla redazione, ma una soluzione la trovo (e/o scelgo) sempre. Ma su questo ammetto di essere un po’ estremista.
ES: Hai mai riletto la tua prima traduzione? Cosa si prova a rileggersi dopo tanti anni?
RS: Nostalgia. Di un tempo in cui mi guidava solo l’entusiasmo, e non (non ancora) la paura di sbagliare, di essere poco spontaneo, poco «vero». Di un tempo in cui la data di consegna per certi lavori era (davvero, lo giuro) «quando è pronto». Però di fronte a certe mie soluzioni di allora sento anche tutta la mia immaturità. E mi domando: è meglio l’immaturità compensata dall’entusiasmo o l’esperienza venata di disillusione? A questo non so trovare una risposta, ma non mi importa: per fortuna riesco ancora, quando ho un libro tra le mani, a chiudere in un cassetto la disillusione e appassionarmi alle parole come una volta.
ES: Quanto è o non è riconosciuto il mestiere del traduttore? In un mondo ideale, quale prassi dovrebbero adottare gli editori per tutelare e valorizzare la categoria?
RS: Troppo facile rispondere di getto (come ho fatto altre volte) «non è riconosciuto». In generale è così, ma non è un problema del traduttore in quanto tale, secondo me, quanto di chiunque lavori di, con e soprattutto per la cultura. Io apprezzo l’impegno – necessario – di sindacati come STRADE, ma la mia impressione è che in questo campo, per certi mestieri, ci troviamo ancora in una situazione ottocentesca, pre-sindacale. Mi spiego. Qual è la prima rivendicazione di un lavoratore? Essere riconosciuto, dal proprio datore di lavoro, come un interlocutore degno. Con doveri e diritti: per esempio, essere citato nel colophon o sul frontespizio; per esempio, essere pagato senza doversi umiliare quando alla scadenza contrattuale (e quindi, in teoria, legalmente vincolante) il compenso non arriva e lui (o lei) si trasforma in Oliver Twist che chiede un po’ di porridge. Questo è intollerabile. Al di là delle belle frasi sui traduttori, nel quotidiano i problemi sono ancora gli stessi di, per dire, un minatore del Kentucky a cavallo tra Ottocento e Novecento: hours (tempi di consegna sempre più stretti), wages (compensi sempre più bassi) e conditions (nessuna tutela). Cosa vorrei? Non più soldi: più rispetto, e più solidarietà concreta. Vorrei che se davvero un editore apprezza il mio lavoro mi facesse sentire come una risorsa per la sua casa editrice, lavorasse per garantirmi almeno una certa continuità di lavoro e puntualità nei pagamenti, e non mi facesse sentire tranquillamente intercambiabile con chiunque altro. Se poi fossi alle prime armi vorrei che pensasse a un percorso di inserimento nel suo parco collaboratori, magari affiancandomi qualcuno per i primi lavori, e non solo a sfruttarmi perché sa di potermi pagare poco. Non tutti si comportano male, è ovvio, però lo fanno in tanti. Io vorrei che questi libri che facciamo li facessimo davvero insieme, e non fosse solo una frase tanto carina quanto vuota: dirigenti, editor, redattori, collaboratori esterni (se proprio l’esternalizzazione massiccia è l’unica strada – io non credo, è solo la più facile). Però che volete che vi dica, io vorrei anche una società senza classi, e allora…
ES: Se non facessi il traduttore, cosa faresti?
RS: Me lo domando spesso. Mio padre aveva un magazzino di combustibili. Avrei potuto prendere il suo posto, ma adesso sarei senza lavoro perché le cose che vendeva lui non hanno più mercato (gli ovuli di antracite sudafricana, chi li usa più). Ho il patentino per proiettare i film, e l’ho fatto per quattro anni, ma anche questa non è più una strada percorribile, per colpa della tecnologia digitale che ha sostituito la pellicola (e comunque proprio per questo non è più divertente). Insegnavo all’università, poi mi hanno mandato via per i soliti tagli al bilancio. Collaboravo con un’agenzia letteraria, poi mi hanno mandato via perché non potevano più pagarmi. Le nuove normative, di fatto, rendono impossibile anche solo pensare a un futuro nella scuola. Il limite d’età per arruolarsi nella Legione Straniera (quaranta) è passato da un pezzo. Provare a lavorare in una libreria è come pensare di restaurare l’Unione Sovietica. Dunque spero davvero di poter continuare a tradurre…
ES: Consigli per un aspirante traduttore (fare un altro mestiere non vale come risposta).
RS: Vediamo un po’. In ordine sparso (tralascio quello che si ricava dalle risposte precedenti, come «leggere sempre e di tutto»):
- Proporsi come una persona che conosce i mestieri del libro e può fare molte delle cose che si fanno in una redazione. Tradurre, ma anche leggere (criticamente, cioè compilare una scheda di valutazione), fare un po’ di scouting (ovvero proporre testi non ancora tradotti, anche se questa pratica oggi è più insidiosa perché gli editor lavorano con anticipi sulle uscite molto lunghi e quasi sempre hanno già letto e scartato quello che gli proponete), correggere le bozze (e quindi imparare il linguaggio dei simboli che si usano), e offrirsi anche, magari non subito, come revisore. Per acquisire queste competenze si possono seguire dei corsi (ma attenzione, che siano tenuti da persone serie – ce ne sono, e valgono ogni centesimo di quello che costano) o studiare per conto proprio: manuali di stile, testi generalisti sull’editoria, manuali di redazione, prontuari di punteggiatura. Conviene imparare anche a muoversi all’interno di software per il DTP, come Adobe InDesign che ormai ha soppiantato Xpress.
- Come proporsi, però? Fare molto networking, alle fiere del libro e ai festival, o dovunque circolino gli editor (che sono i nostri interlocutori principali). Meglio di persona, ma non sottovalutare LinkedIn. Iscriversi a qualche mailing-list del settore, come Biblit. Ascoltare e imparare. Assumere informazioni. Studiarsi con piglio militare le case editrici, i loro cataloghi, scoprire chi sono gli editor che si occupano del tipo di libri che ci piacciono e vorremmo tradurre, farsi dare dai centralini l’email aziendale e scrivere (armandosi di pazienza). Farsi un biglietto da visita, meglio se con un qr code che punta a un sito web che contiene il curriculum e magari qualche prova di traduzione – traducete qualcosa, a fondo perduto, e fatelo girare; alcuni editor lungimiranti lo apprezzeranno. Questo diventare imprenditori e promotori di se stessi per alcuni (come me) che apprezzano la discrezione può risultare pesantissimo – ma è purtroppo indispensabile.
- Abituarsi a lavorare sempre e dovunque. Nella tranquillità della propria stanza come nel caos di una stazione ferroviaria o di un ufficio postale. Attrezzarsi per la mobilità totale. Girare sempre almeno con penna e quadernino (ovvero, analogico e cartaceo): le idee migliori verranno sempre nei luoghi e nei momenti meno opportuni. A sera, lasciate penna e quadernino a portata di mano. Le ore tra le 02 e le 04 sono fecondissime. Pensate al vostro cervello come a un enorme open space dove almeno tre o quattro impiegati lavorano giorno e notte. Non ve ne accorgerete ma lui, così, continuerà ad arrovellarsi su come rendere thingamajig o petiolule (parole che mi piacciono tantissimo ma non ho mai incontrato, per ora) o anche petrichor (questa invece l’ho incontrata e da allora sono una persona migliore). La traduzione non è un maglione che si leva e si mette, non concede sconti e ogni giornata libera è un rischio e un pericolo. È una seconda pelle.
- Imparate a conoscere il regime fiscale in cui (dovrebbe) lavora(re) il traduttore, e anche quello previdenziale. Esiste un utile vademecum pubblicato da strade (guardate sul sito) e che si può acquistare anche se non si è iscritti al sindacato. Trovatevi un commercialista che conosca le norme sul diritto d’autore e, ancora più importante, un avvocato che sia esperto delle stesse problematiche. Prima o poi vi servirà. I commercialisti costano, ma non sono indispensabili. Io ho imparato a compilare il 730 e l’Unico studiando i manuali sul sito dell’Agenzia delle Entrate e adesso faccio da me. L’avvocato invece è necessario. Civilista, per recupero crediti e tutela del diritto d’autore. Il vostro.
- Ponetevi il problema di come affrontare l’ansia, le arrabbiature, l’insicurezza, lo smarrimento e la solitudine. Molte asl offrono percorsi di assistenza psicologica a costi accessibili (così altre strutture come, dove esistono, le Misericordie) se non addirittura gratuiti (alcuni consultori famigliari sono sensibili a questo problema: ansia e insicurezza impattano, del resto, sulla quotidianità famigliare). Provate anche la meditazione (anche in versione soft, non vi serve per forza un ashram; esistono pure applicazioni per lo smartphone, come Calm o Headspace). Le palestre costano, ma correre è gratuito, e ottimo per sfogarsi. Anche la natura può aiutare: camomilla, valeriana, e soprattutto – chiedete in erboristeria – l’iperico (anche associato alla melatonina).
- Non commettete il mio stesso errore. Non chiudetevi in un angolo. Pensate a una exit strategy, tenete pronto un piano b. Considerate che la vostra situazione lavorativa, quella dei primi anni, potrebbe non cambiare. Mai. Anche dopo decenni di esperienza, anche dopo decine di libri tradotti, anche dopo aver visto nascere e morire case editrici, anche dopo aver vinto dei premi, comunque non potrete dare nulla per scontato, non potrete allentare la tensione, né tirare un po’ il fiato. Fa parte del prezzo da pagare. Siatene consapevoli, siate pronti.
- Avete dubbi? Non sapete? Chiedete. Perché a me, all’inizio, tranne due eccezioni (qualcosa il mio mentore all’università, qualcosa il primo editor con cui ho lavorato), nessuno ha detto niente. È un mondo un po’ omertoso, dicono alcuni. Per quanto mi riguarda, e nei limiti del possibile e con la necessaria umiltà, per questo mi sforzo di dare ad altri quello che non ho avuto io.
- Se poi avete problemi di ego, se vi sentite chissà chi, in questo caso sì – cambiate mestiere. Fatelo anche se non sapete accettare le rinunce e la micragna nera, se siete abituati a essere l’anima della festa, se la movida siete convinti di averla inventata voi, se il fatto che per strada non vi riconoscano vi sgomenta. Certo, ci sono alcuni traduttori rockstar. Forse lo diventerete anche voi. Ma forse no.
ES: Quando non traduci, insegni: è davvero possibile insegnare a tradurre?
RS: Ho insegnato letteratura americana all’università, inglese alle superiori, e anche traduzione, per un Master universitario e per un’agenzia letteraria. Ho ritenuto di poterlo fare perché conosco la traduzione come mestiere, come lavoro manuale, di bottega, di saracinesca da alzare e abbassare, e non solo come teoria. La teoria è utile, ma è teoria, spesso autoreferenziale. Mi sono sempre imposto una regola: il giorno in cui fossi rimasto senza incarichi di traduzione avrei abbandonato qualunque corso di traduzione stessi tenendo in quel momento. Troppa gente insegna traduzione senza avere mai tradotto una riga. Per fortuna non si è mai reso necessario. Per rispondere davvero alla domanda: sì, è possibile insegnare certe cose pratiche sulla traduzione. Principi, linee guida, strategie, procedure. Con l’obiettivo di aiutare gli studenti e chi inizia il mestiere a eseguire traduzioni corrette e rispettose del testo, del suo autore, e di chi lo leggerà in edizione italiana. Questo si può fare. La bellezza, poi, è un altro discorso (come si è detto).
Roberto Serrai (1967) ha tradotto il primo libro nel 1992. Ha insegnato Letteratura Americana all’Università di Siena, Lingua e Traduzione Inglese all’Università di Cassino e ha collaborato con il Master in Traduzione ed Editing dei Testi dell’Università di Siena. Adesso lavora quasi esclusivamente per l’editoria come traduttore, lettore e revisore di narrativa e saggistica. Tra gli ultimi autori che ha tradotto ci sono Francis Scott Fitzgerald, Cristina Henríquez, Vikram Paralkar e Ali Eskandarian.
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