Ritorniamo a parlare di traduzione con un articolo di Federica Niola che ci racconta la sua esperienza di lavoro su Vargas Llosa. (Gli altri articoli della rubrica si possono leggere qui.)
Buona lettura!
di Federica Niola
Se si traduce dallo spagnolo, ricevere la proposta di tradurre Vargas Llosa non ha tanti eguali. Ottant’anni (all’epoca qualcuno di meno), una storia di pietre miliari letterarie, il premio Nobel, quell’aria da cantante di tango che anche da sola metterebbe un po’ di soggezione. E la sua fortuna in Italia, le voci che gli hanno dato altri traduttori, tra i quali, come se non bastasse, anche Angelo Morino.
Per fortuna la prima proposta di tradurre Vargas Llosa l’ho letta quando ero in ospedale, il giorno dopo aver partorito mia figlia, mentre lei era nella sua culletta a farsi visitare dai pediatri, e io seduta sul letto a guardare il cellulare per ridare posto alle cose del mondo, prima di rituffarmi nell’asfissiante bolla della cura dovuta ai cordoni ombelicali e nella mistica dell’allattamento a richiesta. Così, per via dell’attrazione che certe volte esercita l’imprudenza soprattutto nei momenti in cui si vive sospesi, ho risposto subito di sì, che certo, non vedevo l’ora di tradurre La civiltà dello spettacolo. Mi piacerebbe poter dire che prima di rispondere ci ho pensato, che ho ricordato il momento in cui ho letto il mio primo libro di Vargas Llosa, che conoscevo a menadito le sue traduzioni. Ma non è vero, non ho pensato a niente, volevo soltanto rispondere in fretta, per essere sicura che la mail con la proposta non sparisse come per magia, magicamente come era arrivata proprio in quel momento.
Sono passati i giorni e il libro l’ho tradotto, nelle ore più strane mi sono ritrovata a cercare le parole per riprodurre quella prosa lucida, con la testa piena di opinioni che per forza dovevo rimandare a un altro momento, per non attenuare le posizioni e non perdere per strada le sfumature. Ma quello era un saggio, fatto per lo più di articoli scritti per un giornale europeo, con diverse cornici per collocarli e presentarli. Una sfida, certo, ma più entusiasmante che spaventosa.
Dopo qualche tempo, però, è arrivato L’eroe discreto, il primo romanzo successivo al Nobel, e non ho potuto fare a meno di mettermi a pensare. Al primo libro di Vargas Llosa che ho letto, che è stato La tía Julia y el escribidor, quando ero ragazzina e divoravo tutto quello che mi capitava sotto mano, soprattutto in spagnolo, che era un modo per non perdere la dimestichezza quotidiana con una lingua parlata con i bambini nei cortili per tanti anni e godermi il privilegio di riuscire a cogliere il ritmo di quelle parole diverse dall’italiano, che ormai parlavo e sentivo dappertutto. Le lingue mi sono sempre piaciute, più che altro i meccanismi che hanno, le differenze, le eccezioni, le stranezze e le ricorrenze, ma per carattere, per timidezza o per pigrizia, le ho sempre studiate come lingue morte, come il greco e il latino al liceo, con grande soddisfazione e pochi risultati al momento di fare conversazione, o di leggere un libro e trovarci davvero la meraviglia della scrittura. Tranne lo spagnolo, le altre continuano a essere scheletri ricoperti malamente di pelle, che lasciano intravedere l’ossatura e mi distraggono dall’insieme. E spesso mi fanno preferire le traduzioni, se si tratta di narrativa, perché di certo chi ha tradotto quei libri scritti in francese o in portoghese o in inglese è molto più sensibile ai lievi passaggi di senso rispetto a me, che devo tradurmi le frasi nella testa anche se leggo per piacere, e così facendo mi perdo quasi tutto, e magari traduco anche male. Tranne lo spagnolo, dicevo, che se non leggo per lavoro e non subentra la deformazione professionale dell’eventuale traduzione, mi rimane spagnolo in testa e se mi concentro distinguo il ritmo, le sfumature, la grazia, se c’è. Tutto questo per dire che come tutti gli altri libri spagnoli e latinoamericani che ho letto per passione e per studio in seguito, anche Vargas Llosa, negli anni, dopo quella tía Julia dell’adolescenza, l’ho letto in lingua originale. Bello, certo, pieno e soddisfacente, ma se devi tradurre con un po’ di cognizione un autore che per cinquant’anni è stato tradotto da altri, è tutto da ricominciare. Interessante confrontarsi con le note di Cicogna, con l’attenta eleganza di Morino, con il piglio di Felici. Ma il tempo, si sa, non è sempre dato al traduttore, o forse il traduttore ne vuole troppo, chissà, e per L’eroe discreto avevo tre (miseri) mesi. E, come se non bastasse, era sufficiente aprire il libro per capire che il momento della lingua più neutra ed ecumenica che Vargas Llosa a un certo punto aveva preferito, era passato. Il primo capitolo si svolgeva nella Piura de La casa verde, pieno di cibi e intercalari locali. Nel secondo comparivano don Rigoberto e Lucrecia: di male in peggio, un sacco di romanzi da riprendere in mano, un sacco di modi di parlare e di riferimenti, un sacco di pagine originali e tradotte da riguardare. E poco tempo, sempre meno, mi sembrava. Ma pazienza, era Vargas Llosa, un’avventura, ne valeva la pena. Perché, come ha detto una volta Cercas, il punto più basso di Vargas Llosa è meglio del punto più alto di quasi tutti gli scrittori.
Quanta soggezione, però, e quante false partenze. La tentazione era quella di soffermarmi su ogni termine, sprofondando nel mare delle possibilità, ma il risultato erano pagine amorfe e meccaniche che parlavano di Felícito Yanaqué, certo, di Piura, ma non assomigliavano neanche lontanamente all’intrigante incipit di Vargas Llosa. I peruanismos erano risolti, per carità, a furia di dizionari e forum, ma stando attenta a tutto insieme, la concentrazione si spezzava e la lingua si rovinava, e quello che c’era nelle frasi, il racconto scandito in quel modo, quelle assonanze, quell’andamento, quella cadenza, quel particolare accento della scrittura si perdeva, sacrificato sull’altare dell’esaustività, nel tentativo di quietare l’ansia di una soluzione definitiva da trovare subito. Così ho fatto come faccio sempre, cioè tradurre tutto il libro il più in fretta possibile, di seguito, senza farmi distrarre dai dubbi sulle singole parole per cercare di conservare qualcosa del ritmo, scrivendo a orecchio, rimandando le esitazioni e le domande, in una resa impaziente e quasi automatica, con gli occhi fissi sulla carta (possibilmente) dell’originale di fianco allo schermo, senza guardare le frasi italiane che sto scrivendo. Perché quello che viene fuori non assomigli tristemente alle versioni in prosa che ci facevano fare a scuola, come se le pause, le rime, le parole sudate di ogni verso non contassero, come se si potesse togliere, anche solo per un po’, la lingua, il metro, il ritmo, i termini scelti uno per uno senza rendere insignificanti e noiose anche le grandi poesie.
Subito dopo, come sempre, è venuto tutto il resto. Le ricerche, i controlli infiniti e ossessivi, il testo originale messo definitivamente da parte quando si è ragionevolmente certi di aver controllato ogni cosa da controllare.
Le imprese, si sa, non sono imprese vere se non costano anche fatica, se non sono piene di sperdimenti e rischi. Nell’Eroe discreto si alternavano fino a ricongiungersi la storia di Felícito a Piura e quella della famiglia di Rigoberto a Lima, così come si alternavano le voci e le parlate, i modi di dire, la lingua, e la differenza non si poteva perdere del tutto. Così, anche se come pallido riflesso, ho pensato di lasciare in originale alcuni termini, che con un po’ di pressapochismo avrei potuto tradurre, certo, annullando del tutto l’alternanza, ma che ho preferito inserire in un glossario alla fine del libro, discreto e prescindibile, forse un po’ più gradito agli editori rispetto alle note che, si sa, rifuggono come la peste. Chissà perché (eh…), a me in realtà le note dei traduttori ben fatte piacciono molto, mi piace trovarle, mi piace che mi basti abbassare lo sguardo per avere una risposta, senza distrarmi per andare a cercare un riferimento, o perderlo del tutto. E non le trovo così didascaliche, si possono anche non leggere, ma non si può pensare che i riferimenti automatici per un lettore di una lingua siano tali per un lettore equivalente vissuto e formato in un’altra cultura.
Insomma, dopo tre mesi L’eroe discreto era tradotto, e io affaticata ma contenta, per quella lingua con la quale avevo avuto l’occasione di cimentarmi, che portava dentro anche molto Perù, così tanto che quando, più tardi, mi è capitato il grande e perduto Reynoso, speravo di partire un po’ avvantaggiata rispetto al momento in cui avevo letto Gli Innocenti alla fine dell’università, perdendomi un quarto delle parole. Pia illusione, come ho avuto modo di scoprire, ma questa è un’altra (bellissima) storia, un’altra avventura.
A distanza di anni, poi, è arrivato Crocevia, con quel titolo difficile da riproporre, quei suoi intrighi e quelle sue «cene eleganti», quell’ansia di riscatto e di verità, e speriamo che ne arrivino molti altri, che Vargas Llosa abbia lunghissima vita e conservi la sua lucida scrittura, ma direi che per il momento questo racconto pieno di digressioni e di contorno può bastare.
Avrei potuto soffermarmi di più sulle singole scelte, sul lavoro che mi è costato rendere quelle frasi così studiate e ferme, ma i traduttori sono costretti a essere seri e pedanti tutto il tempo mentre lavorano alle singole parole, a pensare e a ripensare le frasi, i sinonimi, le ripetizioni, a non perdere il ritmo, a precisarsi tutto in testa. E certe volte sperano che nel risultato si veda, ma che non prevalga sul resto; preferiscono non spiegare per filo e per segno i rovelli e le indecisioni, i ripensamenti, le scelte sudate, soprattutto a chi i libri ha il piacere di leggerli senza doverli sezionare e digerire, potendo scegliere di vederci quello che preferisce, perché il traduttore si è sforzato di perdere il meno possibile per strada. E, soprattutto, visto che sono stati costretti a essere seri e pedanti, quando hanno occasione di riparlarne, certe volte i traduttori preferiscono lasciare da parte la pedanteria, per non annoiarsi da soli.
© Federica Niola, 2017. Tutti i diritti riservati.
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