Paradiso è il primo e unico romanzo di José Lezama Lima. Pubblicato originariamente nel 1966, è considerata una delle opere più importanti in lingua spagnola. Il brano che segue «Habanarama. Cosa fare in paradiso» è la prefazione di Chiara Valerio alla nuova edizione di SUR. Buona lettura.
di Chiara Valerio
1. Come sono arrivata a Paradiso (e Paradiso a me)
Ho sentito parlare di Paradiso di Lezama Lima per la prima volta nel film Fragola e cioccolato di Tomás Gutiérrez Alea e Juan Carlos Tabio. Una videocassetta distribuita in allegato a La Repubblica, il giornale che allora leggevano i miei. Mi era piaciuto perché Diego, uno dei protagonisti, minacciava la statua della Madonna di certe fantasiose angherie, come lasciarla circondata da fiori marcescenti, la ricattava. La Madonna doveva far sì che David, che era appena entrato nella vita di Diego, rimanesse.
A Scauri, fin da quando ero bambina, avevo visto decine e decine di persone minacciare le statue, o pregarle per motivi assai meno sentimentali (era tutto un Santanto’ fatemi uscire questo ambo) e così, vederlo in un film cubano, mi aveva fatto sentire meno provinciale. Fragola e cioccolato è ambientato all’Avana alla fine degli anni Settanta, Diego è persona non grata per il regime di Castro in quanto omosessuale. Si invaghisce di David, un giovane studente militante, e lo invita a casa dove ha molti dei libri messi all’indice. Mano a mano che l’amicizia tra i due si chiarisce – David non è omosessuale – e si fortifica – che sia omosessuale o no, non importa –, Diego racconta a David le meraviglie e la specificità della cultura cubana. Meraviglie e specificità che tutte irraggiano, nel racconto di Diego, da Paradiso di Lezama Lima. E sono lì raccolte. È in Paradiso che un cubano può imparare come si mangia e cosa, come si parla, come si sta al mondo. Paradiso, nelle parole di Diego, è il galateo di ogni cubano, e dunque, di ogni uomo. Motivo per cui, finito il film, ero corsa nella cartolibreria del paese e avevo ordinato una copia di Paradiso e un mese dopo, era l’ottobre del 1995, avevo riscattato l’agognato Supercorallo Einaudi con le trentottomila lire accumulate in monete e banconote di taglio vario (forse anche gettoni del telefono), accompagnando nonna Tina al cimitero ogni sabato o sottraendole con sobrietà impunibile dal portafogli di mamma la mattina presto quando, per non far prendere a me e alle mie sorelle il vizio del fumo, si chiudeva nel sgabuzzino con la sigaretta. Avevo aperto subito il libro a una pagina a caso e mi ero imbattuta in Come alcuni sciocchi credono che la poesia si ipostatizzi solo nei versi, così vi sono altri che finiscono per credere con Freud, che solo il fallo, l’ano, la bocca e la vulva siano gli organi sessuali. Imbarazzata e colpevole, guardandomi intorno furtiva, lo avevo chiuso, tenendo però il segno con l’indice, come quando qualcuno mi scopriva a sbirciare i giornaletti Skorpio che zio Tato dimenticava nelle scale di casa. Ero per strada, nessuno mi guardava. Avevo riletto. Credo sia stato da quel momento che ho cominciato a diffidare della psicanalisi.
E non ho ancora smesso. Anni dopo, mi sarebbe tornata in mente quella frase di Lezama Lima, improvvisamente mentre leggevo Patrizia Cavalli, Ed il divano di quel bar salotto quando ci alziamo sembra un letto sfatto.
2. José Cemí
Il protagonista di Paradiso, in virtù della e nonostante la miriade di personaggi, è José Cemí che soffre d’asma.
L’asma, sta scritto in Paradiso, è mancanza d’aria conseguente all’impossibilità di raccontare le proprie giornate.
La connessione tra parola e racconto, tra carta e carne in Lezama Lima è forte tanto che, nonostante Cemí sia il protagonista, la sua comparsa arriva tardi nel romanzo. Certo viene subito nominato, certo ci sono aneddoti riguardanti la sua infanzia e la sua balia, ma le prime cento e più pagine del romanzo sono dedicate ai nonni e ai genitori perché Lezama Lima costruisce la genealogia romanzata del personaggio romanzesco. Così le due famiglie nell’imparentarsi si perdevano in ramificazioni infinite, in dispersioni e rincontri, in cui coincidevano la storia sacra, quella domestica e le coordinate dell’immagine proiettate verso un ondulante destino. Cemí esiste sulla pagina perché sulla pagina, prima di lui, e causa di lui, stanno i suoi avi. Vivere, per Lezama Lima, e così si legge in Paradiso – non è dichiarazione, è racconto – significa avere un passato e fare dei sogni, e infatti, gli ultimi capitoli del romanzo sono riservati ai sogni di José Cemí.
Quando, inoltre, il colonnello, padre del piccolo e asmatico José, muore nel letto dell’ospedale militare dove è ricoverato, chiede a un uomo, conosciuto poco prima, di cercare suo figlio e di parlargli. Il colonnello dice Ho un figlio, lo vada a conoscere, cerchi di insegnargli qualcosa di quello che lei ha imparato viaggiando, soffrendo, leggendo.
E così, resta rivelata come un augurio e come una preghiera che potrebbe non esaudirsi – per occasione, stanchezza o timidezza – l’ontologia di Lezama Lima. Le parole scritte nei libri, le parole rotte dal pianto o dalla rabbia di essere inadeguati, le parole ascoltate nei viaggi in lingue note o ignote, hanno tutte la medesima realtà, tutte la stessa possibilità di essere insegnamento a qualcuno, esposte anzi, per meglio dire, all’apprendimento di qualcuno. Impariamo perché e quando qualcuno ci racconta qualcosa.
Che cosa e chi gira intorno a José Cemí? Dapprima i parenti e le balie, una sorella, e un cuoco spesso ubriaco, poi gli amici, le conversazioni peripatetiche di notte e di giorno, i ricordi e tutte le parole. A José Cemí non manca neppure una parola, e quando pensa di averle tutte, proprio tutte, esce dal paradiso degli amici – gli amici scompaiono e finisce il Paradiso? – e va sulla terra. Ma il Paradiso e la Terra non sono distanti – come non lo sono in Dante – anzi stanno uno sopra l’altro, permeabili, nel primo stanno i maestri, le poesie, l’intelletto, lo scambio, il consiglio, i ricordi, la nostalgia e il corpo – i corpi, uno sopra l’altro, uno dentro l’altro –, nel secondo le stesse cose, con qualche piccola differenza, come nel gioco della Settimana enigmistica. Ed è questo che José Cemí imparerà, grazie e nonostante gli altri, come sempre si impara a trovare le differenze.
I cerchi del Paradiso che vorticano intorno al giovanotto asmatico e colto, di curiosità prodigiosa e letture vaste e larghe si tirano dietro, nella danza che è la lingua stessa di Lezama Lima, alcuni morti – il padre e lo zio, per esempio, alcune dolcezze parentali – i ricordi della madre e della nonna e delle loro prelibate ricette che al primo cucchiaio riportano all’infanzia –, brani del Messiah di Haendel, e Foción e Fronesis che si tengono l’un con l’altro e immergono Cemí in fantasmagorie e fantasie omosessuali. Come in certe fiabe russe proibite, come in un Alice nel paese delle meraviglie porno, i membri dei compagni di collegio di Cemí si allungano e rimpiccoliscono, inseguono, quasi mossi da propria volontà, buchi e pertugi di varia natura fino ad arrivare all’antro, che si teme dentato, divinità criolla e d’ogni dove, al cospetto del quale, per essere ammessi, bisogna non vedere. Per utilizzare un’espressione di Enzo Striano nel Resto di niente che subito mi aveva convinto della differenza epidermica tra amicizia e sesso – dell’amore, ragionevolmente, assai meno si può dire –, queste pagine (che sono tante) possono far scorrere per il corpo umide carezze.
José Cemí impara ascolta e vede che tutto nel Paradiso è possibile – e dunque lo sarà sulla Terra –, vede anche che Foción, sconvolto dalla scomparsa di Fronesis, si innamora di un albero, o di certo gli fa la corte. La ronda. Foción gira e gira intorno a un albero.
Come in tutti i paradisi che si rispettino, José Cemí ha guide che lo accompagnano fin dove possono ma sempre qui danno l’impressione di perdersi loro pure, incantate dai corpi, dai suoni e dai colori.
Marguerite Yourcenar, ripensando al titolo originale della Recherche di Proust – Le intermittenze del cuore –, si domandava chi avrebbe parlato delle intermittenze dei sensi, dei desideri impressi nella carne come una fatalità permanente. Lezama Lima in Paradiso trasfigura l’educazione sentimentale in un’educazione sensoriale, risponde a Yourcenar e completa Proust dimostrando che i capolavori sono sempre la prosecuzione l’uno dell’altro. E, che se si impara dalle parole, si vive grazie all’integrità dei propri sensi.
Che tra Lezama Lima scrittore e Lezama Lima lettore non ci siano differenze si capisce dalle note che Lezama stesso fa al testo – chiose, chiarificazioni o notizie –, dalle parole scritte con grafie diverse e non sempre ortograficamente corrette, dalle citazioni dichiarate o taciute di altri autori, inglobate nel corpo del testo senza differenze di formato, dalla natura miscellanea del romanzo che, come nella conversazione, avanza – e si avvolge – per racconto, sussurro, argomentazione, descrizione, suono. Se l’unico «Io» che ha senso sottolineare è il testo, Paradiso è un «Io», un soggetto, assai conscio dei propri mezzi, consapevole al punto che degli strumenti verbali, visivi, tattili non fa vanto ma grammatica per descrivere tutte le cose visibili e invisibili, reali o immaginarie (dolorose o eccitanti comunque, talvolta di più).
Quando si rimane per tanto tempo in uno spazio ristretto, è incredibile come si riescano a definire i dettagli.
Per questo, esattamente, per una forma di presenza e di curiosità, di Paradiso mi rimane, al fondo, un colore, quel giallo stanco come l’oro che si trova sulla tiara di certi re assiri che è poi la stessa sfumatura, immutata, delle controre della mia infanzia dove tutti riposavano e io, sveglia, scappavo di casa, strisciando, e andavo fuori a guardare, fantasticare, pregare, razziare, incantare, ed essere incantata.
Paradiso è una parola, un verbo mi pare, sinonimo di guardare coi propri occhi ed è pure il grande sollievo che qualcosa consoli di qualcos’altro.
Nonostante, nella sua (bellissima) nota, Glauco Felici riguardo la sua traduzione scriva Poche opere, infatti, quanto questa rivelano con inflessibile fondatezza la vanità del tradurre e prosegua con Sui risultati di tali tentativi, sul «gradimento» che la riscrittura di Paradiso in una lingua diversa da quella in cui è stato pensato potrà suscitare, è doveroso mostrare un cauto pessimismo, io, che parlo spagnolo solo aggiungendo la s, penso sia una traduzione di grande sonorità e che lascia le parole rincorrersi «in tutte le direzioni della sua crescita» (Mario Luzi, Cronache dell’altro mondo, Marietti, Genova 1989).
3. Fronesis e Foción (sono comuni le cose degli amici)
Se l’infanzia, oltre a essere uno spazio da riempire, è il tempo e il modo del tedio assoluto – e così sta scritto in Paradiso –, l’adolescenza è lo spazio delle letture e delle conversazioni. Per la prima volta Cemí, nella sua adolescenza, si sentì chiamato e portato a conversare in un luogo appartato. Sentì come la parola amicizia assumesse carnalità. Sia Fronesis che Foción, come Cemí, hanno una genealogia di carta. Entrambi tuttavia hanno tre genitori. Due madri e un padre Fronesis, due padri e una madre Foción e sono figure in bilico, ossimore, a entrambi manca qualcosa, entrambi hanno troppo. Per Fronesis questo ossimoro della quantità è l’educazione, per Foción il desiderio. Da un lato e dall’altro di Cemí, giudici a latere della vita di quelli che incontrano – e ne hanno donde
visto ciò che hanno letto, capito e frainteso –, stanno come una diade investita dell’educazione al desiderio. E come il desiderio, l’educazione fallisce sempre. Solo che questo fallimento, considerata l’età imberbe e la saccenza dei tre giovanotti, non conduce alla delusione, ma al cambiamento. Quella che consideravano pedanteria era un incantesimo di sapienza trasformato in amichevole consuetudine. Per questa natura di canto di adolescenza e di prima età adulta, spero che Paradiso sia letto da adolescenti e da ventenni. Non è un viaggio da iniziare a trent’anni, bisogna leggerlo quando si ha ancora l’età per capire senza essere costretti a imparare. Capire con sorda voracità, capire con gli ormoni, sentire nel corpo l’astinenza dalla conoscenza e cercare un appagamento o almeno uno sfogo. Come capita a Cemí.
4. Paradiso come galateo (qualche esempio)
L’odore dell’anice rese ancora più profondo lo splendore del mattino. Dunque, non guardare con sospetto chi al mattino, in piedi al bancone del bar, chiede un caffè corretto, ringraziare, invece, per la rinnovata profondità dello splendore.
Impiegava la sua superiorità intellettuale, non per allargare il mondo delle persone con cui parlava, ma per lasciare il segno della sua persona e dei suoi capricci. Ricordarsi, nel caso si riscontri una propria superiorità intellettuale, di allargare il mondo, cioè, prima di tutto, di ascoltare e guardare.
Quando Elettra credette di aver partorito un drago, vide che il mostro piangeva perché voleva essere allattato; senza esitare gli porse il petto, da cui uscì poi latte mescolato a sangue. Sebbene avesse partorito un mostro, cosa che avrebbe dovuto sconcertarla, sapeva che la sua risposta doveva essere quella di non lasciarlo morire di fame, perché la grandezza dell’uomo consiste nel poter assimilare ciò che gli è sconosciuto. Assimilare, nel profondo, è dare risposta.
Assimilare, nel profondo, è dare risposta.
Assimilare, nel profondo, è dare risposta.
Assimilare, nel profondo, è dare risposta.
Assimilare, nel profondo, è dare risposta.
(Il mattino ha l’oro in bocca.)
Capire con ogni parte del corpo.
Ma secondo me la sessualità va vista dopo la respirazione e la digestione. Anche secondo me. Inoltre, come la respirazione e la digestione, è involontaria.
Il rischio delle proprie lacrime. Quindi, non è proibito piangere.
Le inutilizzabili quattro del pomeriggio. Proposte?
Un tedio da acqua imbottigliata. Non è educato, per esempio, fissare le rade bolle d’aria nell’acqua liscia in attesa che salgano fino al collo della bottiglia.
Alcuni impostori penseranno che io non abbia mai detto queste parole, che tu le hai inventate, ma quando tu avrai dato la risposta attraverso la tua testimonianza, tu e io sapremo che davvero le ho dette e che le dirò finché io viva e che tu continuerai a dirle dopo che sarò morta. Continuiamo a dirle tutti.
Don Chisciotte è un Sinbad, che in mancanza di circostanze magiche, dell’uccello rok che lo trasporti, diventa grottesco. E ancora del perché i libri sono sempre la prosecuzione l’uno dell’altro.
La mano… possiamo cominciare. Le prime e le ultime due parole di Paradiso in italiano. Per cominciare, e per finire, stringersi la mano.
Ma come tutte le virtù che ereditiamo, ignoriamo il rischio del loro esercizio. Ricordarselo quando si parla di soldi.
Non sono allegro, ma semplicemente non ho nulla di che lamentarmi. Non pensare ad attribuire benessere felicità e fortuna a chi non ci annoia coi propri guai. Forse è solo più discreto.
Ognuno si ferma dove vuole e non è che si debba passare la vita regalando a ognuno il frammento additivo, che secondo noi è mancato a ogni vita per completare il suo destino. Cogliere, quando possibile, l’occasione di tacere.
© Chiara Valerio, 2016. Tutti i diritti riservati.
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