Di identità, linguaggio e corpo. Teresa Ciuffoletti, traduttrice di A me puoi dirlo, intervista Catherine Lacey. Buona lettura!
Teresa Ciuffoletti: La storia di A me puoi dirlo è narrata da un personaggio pressoché impossibile da identificare: non ha un nome né documenti, non si definisce e non ricorda quasi nulla del proprio passato. I membri della congregazione che trovano questa persona addormentata su una panca della loro chiesa e decidono di accoglierla – soprannominandola, per l’appunto, «Panca» – non riescono a mettersi d’accordo su come inquadrarla in termini di età, sesso ed etnia. Per il lettore, che fin dalle prime pagine ne scopre la voce e la prospettiva unica, questa figura indefinita assume comunque un suo spessore psicologico. Da dove nasce il desiderio di esplorare il rapporto tra identità e identificazione?
Catherine Lacey: È così umano e così terribile che le persone diano tanta importanza alle categorizzazioni. Tendiamo a farlo anche con noi stessi, il più delle volte con effetti disastrosi. Eppure una buona parte del discorso pubblico attuale (perlomeno negli Stati Uniti) riguarda proprio il rifiuto di certe etichette e l’invenzione di nuove. Trovo che ci sia una tensione interessante in questo, nei vari modi in cui cerchiamo di definire noi stessi e gli altri senza riuscirci del tutto. Abbiamo bisogno delle categorie e allo stesso tempo sentiamo che ci compromettono.
TC: Panca si oppone alla pretesa di ricavare l’identità dal corpo, non solo perché nessuno è d’accordo sul suo aspetto, ma anche perché i suoi monologhi interiori suggeriscono che il corpo e qualsiasi tentativo di classificarlo ci distolgono da qualcosa di più importante. Quando uno dei personaggi racconta di aver sognato una scienziata che, dopo anni di esperimenti, è riuscita a tramutarsi in un cavallo, Panca si domanda: «Era possibile che la mente, la storia, i ricordi e le idee di un essere umano vivessero all’interno del corpo di un cavallo, e se sì, quell’essere andava considerato un umano o un cavallo? E che differenza c’era, fra una vita e l’altra?». Da dove nasce questo tuo interesse per il corpo come correlativo dell’identità?
CL: A un certo punto, verso i trent’anni magari, una persona può sentire di aver vissuto almeno un paio di vite molto diverse tra loro, tanto che il concetto stesso di identità si fa sempre più labile. A volte la trovo una prospettiva rassicurante, ma altre volte se mi fermo a pensarci sono completamente paralizzata dalla paura. Le nostre sembianze possono dare agli altri qualche indizio su chi siamo in un dato momento, ma adesso, nel 2020, abbiamo a disposizione una miriade di possibilità per modificarle. Nessuno è obbligato ad accettare il proprio aspetto: si può alterare quasi ogni caratteristica fisica in modo permanente o temporaneo, sia per ragioni emotive che puramente estetiche. Eppure ogni tentativo di far corrispondere il nostro aspetto esteriore alla nostra interiorità si rivela una fatica di Sisifo, in quanto mente e corpo sono in costante divenire. Riflettevo su questi temi mentre scrivevo. Ci sto ancora pensando.
TC: Mi pare che il rifiuto di un’equivalenza riduttiva tra corpo e identità sia legato a una problematica più ampia, cioè al rischio di un’essenzializzazione dell’individuo che si presta al sopruso. Ma allo stesso tempo anche non poter stabilire chi sia realmente una persona suscita paura e diffidenza. Nel libro, mentre la comunità fa di tutto per risolvere l’enigma, Panca manifesta l’intima convinzione che ci sia qualcosa di inafferrabile, di quasi sacro nell’esistenza individuale, qualcosa di prezioso che viene totalmente svilito nel momento in cui si chiede a qualcuno: «Ma tu cosa sei?». Secondo te dovremmo coltivare un senso di riverenza di fronte alla vita di ciascuno proprio perché non possiamo conoscerla e comprenderla appieno?
CL: Il romanzo non può dirci chi è Panca. Mi rendo conto che una situazione del genere non sarebbe possibile qui, nella «vita reale», ma in fin dei conti è per questo che si tratta di un romanzo. Per certi versi, quindi, il libro non riflette il nostro mondo, ma un mondo parallelo, impossibile. Negli ultimi tempi sono piuttosto insofferente nei confronti dell’umanità – e so di non essere l’unica – in parte perché gli esseri umani non mi sembrano emotivamente pronti per gestire le conoscenze globali di cui dispongono, ma anche perché sento che l’umanità sta volgendo al termine e questo senso di fine imminente non ci aiuta ad apprezzare quanto sia vulnerabile e misteriosa la coscienza. Da bambina amavo gli animali in un modo che rasentava la devozione, poi me ne sono dimenticata per un po’ e solo di recente ho cercato di recuperare quell’atteggiamento. (Il mio cane è venuto a salutarmi proprio adesso!)
TC: Molte delle interazioni tra i personaggi sono pervase da una vena d’angoscia, talvolta enfatizzata dalle uscite comiche e sinistre di un pappagallo che rigurgita frammenti di conversazione fuori contesto. A un certo punto Panca vorrebbe che tutti si esprimessero come un insetto, «una sola parola, niente lingue», rivelando la sua frustrazione nei confronti del linguaggio quale strumento di comprensione reciproca. Diverse scene del romanzo evidenziano come la comunicazione, sia verbale che non verbale, possa alimentare un senso di complicità ma anche di profonda solitudine. Questa tensione tra fiducia e scoraggiamento ti riguarda in prima persona in quanto scrittrice?
CL: Oh sì, e non solo in quanto scrittrice, ma in quanto essere umano. Penso che questa angoscia, questa sorta di estraniamento che hai colto abbia molto a che vedere con la mia percezione (sicuramente difettosa e parziale) del Sud degli Stati Uniti, con il senso di alienazione e al tempo stesso di accoglienza che provo quando sono lì. La tv accesa ventiquattro ore su ventiquattro e l’uso smodato di internet, uniti alla cultura individualistica dell’automobile che domina la maggior parte degli Stati Uniti, hanno prodotto una situazione in cui tutti sanno tutto e nessuno può essere sicuro di nulla. L’uso satirico del linguaggio e della comunicazione nel libro è indubbiamente legato a questo aspetto della cultura americana.
TC: In effetti, questioni filosofiche a parte, A me puoi dirlo è anche un romanzo di satira e critica sociale che prende di mira il materialismo, l’omologazione, l’eccesso, l’ipocrisia e la ristrettezza di vedute. Basti pensare alla famiglia Bonner: l’abbigliamento coordinato stile «esercito in divisa», le dimensioni spropositate della casa, la sovrabbondanza di cibo, il salotto in cui tutto e tutti sono puntati verso la tv. Ma l’affresco sociale che emerge dal libro non è solo triste o umoristico: l’oppressione è capillare, si insinua fin dentro alle case, nei rapporti tra mariti e mogli, genitori e figli. Una sottile minaccia aleggia nell’aria, sempre più incombente man mano che la comunità si prepara a un fantomatico «Festival del perdono». In questo senso il romanzo – ambientato in una cittadina anonima del Sud degli Stati Uniti, in un momento storico non specificato – è anche distopico e presenta caratteristiche del thriller o del racconto dell’orrore. Come concepisci il genere che hai creato con questo libro?
CL: Nella mia vita ho sempre trovato il modo di creare mettendo insieme gli elementi più disparati. Lo stesso vale per il mio approccio alla letteratura. Cercare di capire in quale genere rientri un libro – di per sé una forma d’arte sfuggente – è competenza dell’editore che vuole lanciarlo sul mercato, mentre io non ho idea di cosa sto scrivendo finché non ho finito. Mi sento come un cieco che brancola in una stanza buia per anni, quindi non sono in grado di stabilire in anticipo che tipo di libro voglio scrivere, né di classificare a posteriori quello che ho scritto! Come lettrice, così come quando scrivo, preferisco quei libri che non si inseriscono perfettamente in una particolare categoria. Suppongo che anche questo sia un genere, potremmo chiamarlo «Misfit Lit» [«letteratura non conforme», n.d.t.]. Un nuovo termine per chi si occupa di marketing!
TC: Se da un lato il romanzo offre una visione piuttosto tetra dell’esistenza, almeno entro i confini del mondo che inscena, dall’altro i «diversi» all’interno della comunità – Panca, Nelson, o l’adolescente ribelle Annie – dimostrano che è possibile sfuggire alla morsa degli schemi convenzionali attraverso l’immaginazione, il pensiero critico, i sogni, le scoperte. Io ci ho letto un invito implicito a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio», per dirla con le parole di Calvino. Sei d’accordo con questa mia interpretazione?
CL: Assolutamente sì! Credo che i libri possano essere cupi e leggeri allo stesso tempo, proprio come la vita. Le idee contenute nelle opere che più ho amato ci hanno messo del tempo a districarsi nella mia testa; spero che A me puoi dirlo incontri lettori aperti a questo genere di esperienza.
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