Pubblichiamo oggi, in occasione del centenario dalla nascita di Octavio Paz, un estratto da Anch’io sono scrittura, l’autobiografia del Premio Nobel messicano pubblicata da SUR in anteprima mondiale. L’anticipazione è uscita su La Repubblica sabato 29 marzo 2014.
Traduzione di Maria Nicola
Mi chiedo da sempre: perché diamine scrivo quando sarebbe molto più comodo fare altre cose? La letteratura non è una professione piacevole: è un’attività noiosa e sedentaria e, come se non bastasse, comporta sofferenze e sacrifici. Lavoro un po’ tutti i giorni e in più leggo. Leggere è una delle cose che mi piacciono di più. Leggere e conversare. Quel che mi piace di meno è scrivere. In generale non ho un’idea chiara di quello che farò. Spesso avverto un vuoto, sono senza idee, ma d’improvviso compare la prima frase. Valéry diceva che il primo verso è un dono. È vero: scriviamo la prima riga sotto dettatura. Chi ce la dona? Non lo so.
Ma sta di fatto che compare una riga e che su quella riga si regge tutta la poesia. La poesia è il suo sviluppo: a volte si scrive per contraddire quella prima riga; altre volte la si segue; altre ancora, quando la poesia è stata scritta, quella prima riga scompare. In definitiva, sono io che scrivo la prima riga, ma la scrive anche un altro che non sono io. E il dialogo tra chi ha scritto la prima riga e quell’altro che scrive il resto continua. C’è uno sdoppiamento, una pluralità di poeti.
Naturalmente questa cosa non riguarda soltanto gli scrittori: tutti siamo più persone nello stesso momento. E tutti abbiamo la tendenza a estirpare questa pluralità in favore di una presunta unità. Lo scrittore deve vivere non soltanto un dialogo con gli altri – il suo pubblico, il suo stile, la fama, l’eternità, che so io – ma anche con se stesso. La pagina è viva se in essa traspaiono le voci soppresse. Ho sempre avuto l’impressione che la letteratura fosse linguaggio, purché si intenda che quando parlo di linguaggio parlo di pluralità di visioni del mondo. Ossia delle voci soppresse. Non c’è nulla che io ami più della perfezione verbale, ma solo se il linguaggio di colpo si apre, e nel suo aprirsi, in quella rottura abissale – letteralmente abissale – vediamo e udiamo un’altra realtà. Una realtà che non conoscevamo e una voce che avevamo udito solo in sogno. La voce che avremmo voluto non udire: la voce della morte, la voce carnale.
C’è sempre un altro che collabora con me. E in genere collabora contraddicendomi. Il pericolo è che la voce che nega ciò che diciamo sia così forte da metterci a tacere. Ma vale la pena di correre il rischio: è meglio che l’interlocutore ci metta a tacere piuttosto che noi mettiamo a tacere l’interlocutore. Quando siamo noi a metterlo a tacere, la nostra letteratura diventa didascalica, morale, noiosa. Diventa proclama, lezione. Se mi sono opposto all’art engagé, all’«arte sociale» e a tutte quelle cose che per molti anni si sono scritte in America Latina, era perché mi pareva immorale che uno scrittore desse per scontato di avere la ragione, la giustizia o la storia dalla sua parte. È orribile che uno scrittore pretenda di avere ragione, non solo di fronte al mondo, ma di fronte all’altro suo io… Correggo molto ciò che scrivo perché l’altro parla sempre: è un essere alquanto perverso e insopportabile che dice di no a tutto quel che dico io. A ciò si deve il balbettio continuo, la continua indecisione, il cambiamento continuo in tutto ciò che dico. La spontaneità è alimentata dal dialogo. Se non c’è l’altro, non c’è spontaneità. Il monologo, invece, è nemico della spontaneità.
Per più di sessant’anni sono rimasto fedele alla poesia. E quando si parla di poesia si parla di amore. Un giorno, da bambino, mentre mio nonno non era nel suo studio, mi sedetti alla sua scrivania, scelsi una penna appuntita – mio nonno non usava la stilografica – e sulla bella carta che adoperava per la corrispondenza scrissi una lettera d’amore. La chiusi con cura e la sigillai con la ceralacca rossa e l’anello di cui lui si serviva a tale scopo. Andai in giardino, colsi dei fiori, ne feci un mazzolino e uscii di casa. Era l’imbrunire, l’ora incerta che in Messico chiamiamo «tra l’azzurro e la buona notte». Non c’era anima viva nelle strade di Mixcoac. La lettera non recava il nome della destinataria; era indirizzata letteralmente «alla sconosciuta». Camminai per un po’; a chi consegnarla? dove lasciarla? Girando l’angolo, nella semioscurità, intravidi una casa dalle proporzioni nobili, con una fila di balconi in ferro e, dietro le sbarre, le finestre di legno con le tendine bianche. Mi parve che la casa custodisse un mistero; forse la sconosciuta abitava lì. Mosso da un impulso che non so spiegare, dopo un attimo di esitazione lanciai la lettera e il mazzo di fiori tra le inferriate di un balcone e mi allontanai rapidamente.
La mia poesia è rimasta fedele a quell’atto infantile e alla speranza che recava in sé: trovarla. Chi? Il mio fantasma perduto nel tempo. Un fantasma, ne ero certo, che si sarebbe materializzato in una donna in carne e ossa. La vita, in genere indifferente e spesso crudele, a volte ci premia con inusitate e generose sorprese. Chi avrebbe potuto dire al bambino che aveva scritto la lettera alla sconosciuta che, molti anni dopo, avrebbe incontrato Marie José, la destinataria sconosciuta?
[…]Ho scritto e scrivo perché intendo la letteratura come un dialogo con il mondo, con il lettore e con me stesso (e il dialogo è l’opposto del rumore che ci nega e del silenzio che ci ignora).
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