In occasione dell’anniversario del poeta messicano Octavio Paz, pubblichiamo un estratto di Anch’io sono scrittura, l’autobiografia curata da Julio Hubard.
di Octavio Paz
traduzione di Maria Nicola
Nel marzo del 1994 ho compiuto ottant’anni. Alcuni amici generosi hanno voluto festeggiare con me, in luoghi diversi, questo anniversario. Ho accettato gli omaggi con gioia e gratitudine ma, lo dico sinceramente, senza troppo gloriarmene. La fama e la notorietà, grandi o piccole, sono fatte di vento; non l’amicizia e il cameratismo, che sono beni reali cui tutti aspiriamo. Nel luglio di quest’anno si sono spenti i fuochi d’artificio e quando stavo per tornare alle mie cose, colei che non era stata invitata, la malattia, ha bussato alla mia porta. Ho aperto, e lei senza dir nulla mi ha trafitto con uno sguardo che non saprei definire: non era collera né pietà e neppure indifferenza.
Era ciò che chiamiamo, nella nostra incapacità di dire ciò che proviamo, patimento.
Senza volto, senza nome:
guardo
– senza guardare;
penso
– e mi disfaccio.
Pochi giorni dopo i medici decifrarono per me il significato di quello sguardo: ero ferito a morte e se volevo cavarmela dovevo sottopormi a una complessa operazione chirurgica. Esitai per qualche giorno. Parlai con mia moglie e decisi di affrontare la prova.
È osceno,
dissi in un momento come questo,
morire nel proprio letto.
Mi pento:
non voglio la morte di fuori,
voglio morire sapendo che muoio.
Non descriverò la mia esperienza. Quasi tutti si sono trovati (o si troveranno) in simili frangenti. In quei momenti scopriamo che la sofferenza non è una parola bensì una realtà tangibile e inafferrabile, che si allontana per un attimo per poi tornare con più accanimento. Il dolore, le trafitture e gli spasmi sono materiali eppure incorporei: il corpo li sente ma non può toccarli. Sono sensazioni fisiche e mentali. È impossibile tentare di distinguerle perché l’intera persona, quando li sente, si riduce a sensazione. E quella sensazione che cos’è, se non una percezione? E che cos’è la percezione…? Che cos’è l’«ahi!» in cui ci siamo trasformati: una supplica o un lamento? Nell’uno come nell’altro caso, a chi lo diciamo? Il male non viene da fuori, viene da noi stessi. Io sono colui che soffre e colui che mi fa soffrire. Il dolore ci riporta a noi stessi, e al tempo stesso ci consegna al nostro nemico. In tal modo ci isola e può trasformarci in bestie egoiste e feroci. Se riusciamo a superarlo, ci rendiamo conto che la nostra vulnerabilità è comune a tutti. Anche gli altri soffrono, tutti soffriamo. Non si tratta di fratellanza con i morti – che cosa sappiamo di loro e che cosa sanno loro di noi? – ma con i vivi, sofferenti e mortali. In questo il cristianesimo, inventando la carità, ha superato la filosofia pagana più alta e più pura: non una comunione delle menti ma della sofferenza.
Le porte della comprensione si sono dischiuse grazie alla sollecitudine affettuosa di alcuni amici e, soprattutto, grazie alla presenza costante di mia moglie. Non lo dimenticherò mai. È stato un balsamo. Anzi: è stata la conferma che una prova del vero amore è la partecipazione alla sofferenza dell’altro. Lo avevo intuito, poco prima, scrivendo La duplice fiamma, e avevo definito quel sentimento, per distinguerlo dalla comune simpatia, riesumando una parola usata da Petrarca: compathia.
L’operazione è stata lunga e delicata: mi hanno aperto il torace e hanno ripristinato la circolazione del sangue nelle arterie coronariche attraverso ponti o canali fatti con alcuni frammenti di una vena che mi avevano estratto dalla gamba sinistra. Racconto tutto ciò non soltanto per gratitudine verso i medici e le infermiere, ma perché ho ricordato di frequente nei miei scritti i rischi legati alla beatificazione delle scienze e, soprattutto, alla tecnicizzazione del mondo. I pericoli sono reali e non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alle devastazioni della tecnica. Tuttavia, bisogna aggiungere che i mali in questione non sono dovuti alla tecnica in sé, ma al cattivo uso che abbiamo fatto delle sue scoperte. Dall’invenzione del fuoco alla fissione atomica, tutte le scoperte scientifiche sono state, contemporaneamente, creative e distruttive. La dualità non dipende dal sapere scientifico bensì dalla condizione umana. A questo punto si fa largo una verità inquietante: siamo figli della natura, che è creatrice e distruttiva; più esattamente: di una natura che creando distrugge e distruggendo crea. Nell’ambito della materia noi non siamo che un episodio dell’evoluzione naturale. Per questo è impossibile fondare un’etica sulla natura umana, che è prevalentemente biologica. Però l’uomo non è soltanto natura; o lo è in un modo molto particolare, che lo rende un’eccezione. Di tutti gli esseri viventi che conosciamo, l’uomo è l’unico che sia stato capace di creare un regno relativamente autonomo, per quanto sia conseguenza dell’evoluzione naturale: la cultura. E la cultura comincia con un no rivolto a molti istinti, impulsi e passioni che sono naturali. L’uomo, figlio della natura, ha conquistato e costruito un regno in cui – come negarlo? – abbondano gli orrori, ma nel quale germogliano virtù assenti nel mondo naturale: la solidarietà (o meglio: la carità), la sete di sapere, l’amore, le arti, le scienze.
In questo mi sento lontano da Heidegger e dai suoi seguaci, per i quali la scienza e in particolar modo la sua conseguenza, la tecnica, sono espressioni della brama di potere. È vero, ma non è tutta la verità. Le scienze sono conoscenza e il conoscere non è solo brama di dominio. Nasce dallo stupore di fronte a ciò che si conosce e culmina nella contemplazione, come nella tradizione platonica, che è ancora viva, o nella sensazione di partecipare del movimento degli astri e della crescita delle piante. Tale sentimento, frequente tra gli scienziati contemporanei, può essere sintetizzato in questa frase: siamo fratelli di tutti gli esseri viventi e, insieme a loro, siamo parte del cosmo. Le scienze sono potere, sono conoscenza e sono fratellanza.
L’uomo, inventore di idee e di manufatti, creatore di poesie e di leggi, è una creatura tragica e irrisoria: è un incessante creatore di rovine. Le rovine racchiudono dunque il senso della storia? Se così fosse, che senso avrebbero? Chi potrebbe rispondere a questa folle domanda? Il dio della storia, la logica che regge i suoi movimenti e che rappresenta la ragione dei crimini e degli atti eroici? Questo dio dai molti nomi, che nessuno ha mai visto, non esiste. Siamo noi: dio è la nostra creatura. La storia è quello che noi facciamo. Noi: i vivi e i morti. Ma siamo forse responsabili di ciò che hanno fatto i morti? In una certa misura sì, lo siamo: siamo stati fatti da loro e portiamo avanti le loro opere, quelle buone e quelle cattive. Tutti siamo figli di Adamo ed Eva, la specie umana ha gli stessi geni dal momento in cui è comparsa sulla terra. La storia gronda sangue dai tempi di Caino: siamo forse il male? O il male è là fuori, e noi siamo il suo strumento, il suo mezzo? Un personaggio delirante di Sade era convinto che l’intero universo, dagli astri agli uomini, fosse composto di «molecole malvagie». Assurdo: le stelle e gli atomi, le piante e gli animali non conoscono il male. L’universo è innocente, anche quando sommerge un continente o incendia una galassia. Il male è umano, esclusivamente umano. Ma nell’uomo non c’è solo malvagità. Il male si annida nella sua coscienza, nella sua libertà, dove è presente anche il rimedio, la risposta contro il male. Questa è l’unica lezione che posso dedurre dal mio lungo e sinuoso percorso: lottare contro il male significa lottare contro noi stessi. Ed è questo il senso della storia.
Con queste riflessioni concludo il resoconto di una ricerca cominciata nel 1929. Nel ripercorrere questi sessant’anni mi accorgo che la peregrinazione mi ha portato al punto di partenza. Sono sicuro che si stiano preparando giorni nuovi per il Messico e che questi saranno giorni di luce, di amore e di sole. Credo che in questi anni, per il Messico, non si stia concludendo un periodo, come si pensa comunemente, ma che si stia compiendo una svolta, per andare avanti.
Andremo avanti: continueremo. E faremo ciò che non siamo riusciti a fare in passato. Non io (la mia vita è transitoria), ma voi e, soprattutto, i giovani, che hanno in mano la verità del Messico. La verità che alterna crudeltà e splendore, la verità che può portarci all’oscurità o alla luce. I giovani messicani sono questo: la luce del Messico, ed essendo la luce, sono anche l’oscurità. Sono il premio del Messico, e la promessa di ciò che non si è ancora realizzato, ma che presto si realizzerà.
Non so quanto tempo avrò, ma so che lì ci sono le nuvole e che su quelle nuvole molte cose; anche il sole. Le nuvole sono vicine al sole. Nuvole e sole sono parole sorelle. Cerchiamo di essere degni delle nuvole della Valle del Messico, cerchiamo di essere degni del sole della Valle del Messico. Valle del Messico! Parole che hanno illuminato la mia infanzia; parole che illuminano la mia maturità e la mia vecchiaia.
Chiedo
non l’illuminazione:
aprire gli occhi,
guardare, toccare il mondo
con lo sguardo di un sole che si ritira;
chiedo di essere il punto fermo del vortice,
la coscienza del tempo
lungo quanto un battito di ciglia
dell’anima assediata;
chiedo
di fronte alla tosse, al vomito, alla smorfia,
di essere giornata serena,
luce bagnata
su terra appena coperta di pioggia
e che la tua voce, donna, sulla mia fronte sia
il placido soliloquio di un fiume;
chiedo di essere breve scintillio
repentina fissità di un riflesso
sull’ondeggiare di quest’ora:
memoria e oblio,
alla fine,
una stessa chiarità istantanea.
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