Rosemary’s Baby è considerato l’horror più horror di sempre. Ispirato all’omonimo romanzo di Ira Levin, intorno al film di Roman Polansky si è detto di tutto – si parla addirittura del coinvolgimento di Anton LaVey, fondatore della Chiesa di Satana, durante le riprese – ma la vera maledizione è legata al 9 agosto 1969, quando la moglie del regista polacco venne uccisa nella sua casa di Hollywood dai seguaci del fanatico Charles Manson.
Il brano che segue riporta la famosissima scena del romanzo in cui, dopo aver mangiato una mousse al cioccolato dallo strano sapore, Rosemary si addormenta e fa un incubo particolarmente inquietante…
Buona lettura!
di Ira Levin
traduzione di Attilio Veraldi
Alle quattro e mezzo, mentre stava apparecchiando la tavola davanti al camino, squillò il telefono.
«Rosemary? Come stai?»
«Bene», rispose. «E tu?» Era Margaret, la maggiore delle sue due sorelle.
«Bene».
«Dove sei?»
«A Omaha».
Non erano mai andate molto d’accordo. Margaret era sempre stata scorbutica e permalosa, troppo spesso incaricata dalla madre di badare ai fratelli e sorelle più piccoli. Il fatto che le telefonasse era insolito; insolito e preoccupante.
«Stanno tutti bene?», chiese Rosemary. È morto qualcuno, pensò. Chi? Mamma? Papà? Brian?
«Sì, stanno tutti bene».
«Davvero?»
«Certo. E tu?»
«Bene, te l’ho detto».
«È tutto il giorno che ho uno strano presentimento, Rosemary. Il presentimento che ti fosse successo qualcosa. Non so, un incidente o qualcosa del genere. Che tu fossi ferita, magari in ospedale».
«Be’, sto benissimo», rispose Rosemary, ridendo. «Sto benissimo, t’assicuro».
«Era un presentimento molto forte», continuò Margaret. «Ero sicura che ti fosse successo qualcosa. Alla fine Gene mi ha detto: ma perché non le telefoni e controlli?»
«Come sta, a proposito?»
«Bene».
«E i bambini?»
«Oh, i soliti lividi e sbucciature, per il resto anche loro stanno bene. Ne aspetto un altro, lo sapevi?»
«No, non lo sapevo. È una bella notizia. Per quando?» Presto ne aspetteremo uno anche noi.
«Per la fine di marzo. Come sta tuo marito, Rosemary?»
«Benissimo. Ha avuto una parte importante in una nuova commedia e presto cominceranno le prove».
«Di’ un po’, hai visto il papa?», chiese Margaret. «Dev’esserci grande eccitazione lì da voi».
«Infatti», rispose Rosemary. «L’ho seguito alla televisione. L’avete visto anche a Omaha, vero?»
«Non da vicino? Non sei andata a vederlo?»
«No, non sono andata».
«Veramente?»
«Veramente».
«Santo cielo, Rosemary», esclamò Margaret. «Lo sai che papà e mamma stavano per prendere un aereo per venire a vederlo? Poi hanno rinunciato perché ci sarà la votazione a proposito di uno sciopero al quale papà ha dato il suo appoggio. Ma una quantità di gente è partita: i Donovan e Dot e Sandy Wallingford. Tu stai lì, abiti lì, e non sei andata a vederlo?»
«Ormai la religione per me non ha più l’importanza che aveva un tempo», rispose Rosemary.
«Be’, probabilmente è inevitabile», disse Margaret, e Rosemary immaginò il resto della frase non detta: quando si è sposate con un protestante.
«Sei stata molto carina a telefonarmi, Margaret. Non hai nessun motivo per essere preoccupata. Non sono mai stata meglio, di salute e di morale».
«Era un presentimento così forte», disse Margaret. «Fin da quando mi sono svegliata. Sono così abituata a prendermi cura di voi piccole…»
«Abbracciami tutti, ricordatelo. E di’ a Brian di rispondere alla mia lettera».
«Senz’altro. Rosemary…?»
«Sì?»
«Quel presentimento ce l’ho ancora. Resta in casa stasera, d’accordo?»
«È proprio quello che abbiamo in mente di fare», rispose Rosemary, voltandosi a guardare la tavola che aveva cominciato ad apparecchiare.
«Bene», fece Margaret. «Abbi cura di te».
«Senz’altro», rispose Rosemary. «Anche tu, Margaret».
«Senz’altro. Ciao».
«Ciao».
Riprese ad apparecchiare la tavola, provando un vago struggimento, una vaga nostalgia per Margaret e Brian e gli altri fratelli, per Omaha e il passato ormai perduto.
Finito di apparecchiare la tavola, fece il bagno; poi s’incipriò e profumò, si truccò gli occhi e le labbra, si pettinò; infine infilò un pigiama da casa di seta color vinaccia che Guy le aveva regalato il Natale precedente.
Guy tornò a casa tardi, dopo le sei. «Mmm», fece, baciandola, «vien voglia di mangiarti. Posso? Maledizione!»
«Cosa c’è?»
«Ho dimenticato la torta».
Le aveva detto di non preparare il dolce; avrebbe portato lui il suo dolce preferito in assoluto: la torta alla zucca di Horn and Hardart.
«Mi prenderei a calci», esclamò. «Sono passato davanti a due di quei negozi, accidenti. Non uno, due».
«Fa niente», disse Rosemary. «C’è la frutta e del formaggio. In fondo è sempre il miglior dessert».
«Nossignore, il miglior dessert è la torta alla zucca di Horn and Hardart».
Andò a lavarsi e lei mise nel forno una teglia di funghi farciti e preparò il condimento per l’insalata.
Pochi minuti dopo Guy s’affacciò alla porta della cucina, abbottonandosi il colletto di una camicia di velluto azzurro. Gli occhi gli brillavano ed era un tantino emozionato, come quando erano andati a letto insieme la prima volta e lui sapeva che ci sarebbero andati. Le fece piacere vederlo così.
«Il tuo amico, il papa, ha bloccato tutto il traffico oggi», disse Guy.
«Hai visto la televisione?», chiese lei. «Un collegamento perfetto».
«M’è capitata sott’occhio, lì da Allan. I bicchieri sono nel frigorifero?»
«Sì. È stato un magnifico discorso quello alle Nazioni Unite. Mai più guerre, ha detto».
«Sì, domani. Ehi, questi sembrano buonissimi».
Bevvero un gibson, accompagnato dai funghi farciti, nel soggiorno. Guy mise dei giornali accartocciati e un po’ di fascine sulla grata del camino, e due grossi pezzi di carbone. «O la va o la spacca», disse, accese un fiammifero e diede fuoco alla carta. Avvampò subito e le fiamme attaccarono le fascine. Un fumo nero cominciò a traboccare fuori del camino, puntando verso il soffitto. «Santo cielo», esclamò Guy, e trafficò all’interno della canna. «La pittura! La pittura!», esclamò Rosemary.
Alla fine Guy riuscì ad aprire la canna e l’aspiratore, messo in funzione, fece scomparire il fumo.
«Nessuno, nessuno al mondo ha un fuoco come questo, stasera», esclamò Guy.
Rosemary, in ginocchio e col bicchiere in mano, fissando il carbone che crepitava, avvolto dalle fiamme, disse: «Non è una meraviglia? Spero proprio che avremo l’inverno più freddo di tutto il secolo».
Guy mise su un disco di Ella Fitzgerald che cantava Cole Porter.
Erano quasi a metà del pesce spada quando suonò il campanello della porta. «Merda», disse Guy. Si alzò, sbatté via il tovagliolo e andò ad aprire. Rosemary drizzò la testa in ascolto.
Quando la porta fu aperta la voce di Minnie disse: «Salve, Guy!» e altre cose che Rosemary non riuscì a distinguere. Oh, no, pensò. Non farla entrare, Guy. Non adesso, non proprio stasera.
Guy disse qualcosa e Minnie rispose: «…in più. A noi avanzano». Poi parlò di nuovo Guy, quindi ancora Minnie. Rosemary sospirò, dopo aver trattenuto il fiato: grazie al cielo non stava per entrare, a quanto pareva.
La porta venne chiusa a chiave (Bene!) e con il chiavistello (Bene!). Rosemary guardò verso la porta del soggiorno, in attesa; Guy comparve sulla soglia con un sorriso trionfante e le mani dietro la schiena. «Chi dice che non esiste la telepatia?», esclamò e, avanzando verso il tavolo, mostrò due coppette bianche che aveva sul palmo di ciascuna mano. «Madame e Monsieur avranno il dessèr in ogni caso», annunciò, depositando una coppetta accanto al bicchiere del vino di Rosemary e l’altra accanto al proprio. «Mousse au chocolat», disse, «o meglio, come l’ha chiamata Minnie: muso al cioccolàt. Naturalmente, trattandosi di lei, tutto è possibile, perciò fa’ attenzione ora che la mangi».
Rosemary rise, felice. «Meravigliosa combinazione», disse. «Proprio quello che avevo pensato di preparare io».
«Visto?», fece Guy, mettendosi a sedere. «Telepatia». Si rimise il tovagliolo sulle gambe e versò altro vino.
«Temevo ci piombasse in casa e rimanesse tutta la sera», disse Rosemary, raccogliendo le carote con la forchetta.
«No», rispose Guy, «voleva solo farci assaggiare il suo muso al cioccolàt e provare così una delle sue “speciiialità”».
«Ha l’aria d’essere buona».
«Sì, è vero».
Le coppette erano piene di cioccolata avvolta a spirale. In cima a quella di Guy c’era una spruzzata di noci tritate e su quella di Rosemary una mezza noce.
«È davvero molto gentile», osservò Rosemary. «Non dovremmo prenderla in giro».
«Hai ragione», rispose Guy. «Hai proprio ragione».
La mousse era ottima, ma aveva un retrogusto come di gesso, che a Rosemary ricordò la scuola e le lavagne. Guy assaggiò ma non riuscì a distinguere nessun «retrogusto», né di gesso né di altro. Dopo averne mangiato due cucchiaiate, Rosemary mise via la mousse. Guy chiese: «Non la finisci? Sciocchezze, cara, non c’è nessun retrogusto».
Rosemary insisté: c’era.
«Via, su», disse Guy, «quella vecchia scema ha sfacchinato tutto il giorno davanti ai fornelli per prepararla: mangiala».
«Ma non mi piace», replicò Rosemary.
«È buonissima».
«Mangia anche la mia».
Guy s’accigliò. «E va bene, non mangiarla. Visto che non porti l’amuleto che ti ha regalato, puoi anche non mangiare il suo dessert».
«Cosa c’entra questo?», disse Rosemary, confusa.
«C’entra… be’, è una scortesia anche questa, ecco tutto», rispose Guy. «Un attimo fa hai detto che dovevamo smetterla di prenderla in giro. Be’, anche questa può essere una presa in giro: accettare una cosa e non usarla, o non mangiarla».
«Oh…» Rosemary riprese il cucchiaio. «Se devi fare una scenata…» Prese una grossa cucchiaiata di mousse e se la mise in bocca.
«Nessuna scenata», fece Guy. «Senti, se davvero non ti va non mangiarla».
«Deliziosa», disse Rosemary con la bocca piena, e prese un’altra cucchiaiata di mousse. «Mi sono sbagliata. Cambia lato al disco».
Guy si alzò e andò al giradischi. Rosemary si piegò in due il tovagliolo in grembo e ci fece cadere dentro due cucchiaiate di mousse, poi un altro mezzo cucchiaio, per buona misura. Ripiegò il tovagliolo e, quando Guy tornò verso la tavola, finse di ripulire ben bene la tazza. «Ecco qua, papino», disse, mostrandogli la tazza vuota. «Ora mi premierai per la mia buona condotta?»
«Certo. Scusami, ho esagerato».
«Infatti».
«Scusami». Le sorrise.
Rosemary s’intenerì. «Sei scusato», disse. «Mi piace il fatto che tu abbia rispetto per le donne anziane; significa che ne avrai anche per me quando sarò vecchia».
Bevvero il caffè e una crème de menthe.
«Oggi ha telefonato Margaret», disse Rosemary.
«Margaret?»
«Mia sorella».
«Ah. Tutto bene?»
«Sì. Temeva che mi fosse successo qualcosa: aveva un presentimento».
«Davvero?»
«Restiamo a casa, stasera».
«Caspita. Avevo prenotato da Nedick, per l’Orange Room».
«Puoi disdire».
«Com’è che tu sei venuta fuori sana mentre il resto della tua famiglia è pazzo?»
Ebbe il primo capogiro mentre, in cucina, stava versando dal tovagliolo nel lavello la mousse che non aveva mangiato. Barcollò, un attimo solo, poi batté le palpebre e s’accigliò. Guy, dallo studio, gridò: «Ancora non è arrivato. Gesù, che folla!» Il papa allo Yankee Stadium.
«Vengo subito», disse Rosemary.
Scosse la testa per schiarirsi le idee, poi infilò il tovagliolo nella tovaglia e gettò il tutto nel canestro del bucato. Mise il tappo nel lavello, aprì l’acqua calda, ci versò dentro il detersivo e cominciò a impilare i piatti e le pentole. Li avrebbe lavati l’indomani mattina, dopo averli lasciati a mollo tutta la notte.
Il secondo capogiro la colse mentre stava appendendo lo strofinaccio dei piatti. Durò più a lungo, e questa volta le sembrò che la stanza le girasse lentamente intorno e le gambe quasi le si piegarono. Si aggrappò al bordo del lavello.
Quando fu passato, esclamò: «Oh, Dio mio», e contò: due gibson, due bicchieri di vino (o tre?) e una crème de menthe. Non c’era da stupirsi.
Riuscì a raggiungere la porta dello studio e a reggersi in piedi, durante il terzo capogiro, appoggiandosi alla maniglia con una mano e allo stipite con l’altra.
«Cosa c’è?», chiese Guy alzandosi, premuroso.
«Mi gira la testa», rispose lei, e sorrise.
Guy spense la televisione e le andò vicino, le prese il braccio e la tenne ben ferma per la vita. «Non mi meraviglio», disse. «Con tutta la roba che hai bevuto. Magari eri anche a stomaco vuoto».
La portò verso la camera da letto sorreggendola e alla fine, quando le gambe le cedettero, la prese in braccio. L’adagiò sul letto e si sedette accanto a lei, prendendole la mano e accarezzandole con affetto la fronte. Rosemary chiuse gli occhi. Il letto era una zattera trascinata da una lieve corrente increspata; girava su sé stessa e beccheggiava in maniera piacevole. «Che bello», disse.
«Hai bisogno di dormire», disse Guy, accarezzandole la fronte. «Una bella nottata di sonno».
«Dobbiamo fare il bambino».
«Lo faremo. Domani. C’è tempo».
«Perdo la messa».
«Dormi. Su avanti, fa’ una bella dormita…»
«Riposerò un pochino», disse lei, e si trovò con un bicchiere in mano sul panfilo del presidente Kennedy. Era una giornata di sole e di vento, l’ideale per un giro in barca. Consultando una grande carta, il presidente diede istruzioni chiare e precise a un ufficiale in seconda nero.
Guy le aveva tolto la giacchetta del pigiama. «Perché me la togli?», chiese lei.
«Per farti stare più comoda», rispose lui.
«Sto già comoda».
«Dormi, Ro».
Le aprì i bottoni sul fianco e lentamente le sfilò i pantaloni. Credeva che dormisse e non se ne accorgesse. Adesso non aveva niente addosso, tranne un bikini rosso; ma anche le altre donne a bordo del panfilo – Jackie Kennedy, Pat Lawford e Sarah Churchill – erano in bikini, perciò, grazie al cielo, non c’era niente di male. Il presidente indossava l’uniforme della marina. S’era ripreso completamente dall’assassinio e sembrava in ottima forma. Hutch stava sulla banchina, in piedi, con le braccia cariche di strumenti meteorologici. «Hutch non viene con noi?», chiese lei al presidente.
«Solo i cattolici», fu la risposta, accompagnata da un sorriso. «Vorrei che fossimo liberi da questi pregiudizi, ma purtroppo non è così».
«E Sarah Churchill?», chiese ancora lei. Si voltò per indicarla ma Sarah Churchill era scomparsa e al suo posto c’era tutta la famiglia: papà, mamma, tutti, coi mariti, le mogli e i figli. Margaret era incinta e così anche Jean e Dodie ed Ernestine.
Guy le stava sfilando la fede dal dito. Lei si chiese perché, ma era troppo stanca per chiedere. «Dormi», si disse, e dormì.
Era la prima volta che la Cappella Sistina veniva aperta al pubblico e lei stava studiandone il soffitto su un nuovo ascensore che trasportava il visitatore orizzontalmente attraverso la cappella, permettendogli in tal modo di osservare gli affreschi così come li aveva visti Michelangelo quando li dipingeva. Che capolavori! Vide Dio che tendeva il dito verso Adamo, dandogli la scintilla divina della vita; e, mentre veniva trasportata attraverso l’armadio della biancheria, scorse la parte inferiore di uno scaffale ricoperto in parte da carta adesiva a quadretti. «Piano», disse Guy, e un altro disse: «L’hai fatta ubriacare troppo».
«Un tifone!», gridò Hutch dalla banchina, in mezzo a tutti quei suoi strumenti meteorologici. «Un tifone! Ha già ucciso cinquantacinque persone a Londra e si sta dirigendo da questa parte!» E Rosemary sapeva che aveva ragione. Doveva avvertire il presidente. La nave stava andando verso la rovina.
Ma il presidente era scomparso. Erano scomparsi tutti. Il ponte ora si stendeva all’infinito ed era deserto, fatta eccezione per l’ufficiale in seconda nero che, lontanissimo, manovrava il timone tenendo incessantemente la nave sulla sua rotta.
Rosemary andò da lui e capì immediatamente che odiava tutti i bianchi, lei compresa. «Meglio se se ne va di sotto, Miss», disse, cortese ma pieno di odio per lei, senza nemmeno ascoltare l’avvertimento che lei era venuta a dargli.
Di sotto si trovava un’enorme sala da ballo nella quale c’era, da un lato, una chiesa avvolta in fiamme indomabili e, dall’altra, un uomo con la barba nera che la fissava. Al centro c’era un letto. Vi si diresse e vi si distese e all’improvviso fu circondata da uomini e donne nudi, una decina o una dozzina, in mezzo ai quali c’era Guy. Erano tutti anziani e le donne erano grottesche, con i seni afflosciati. C’erano Minnie e la sua amica, Laura-Louise, e Roman con una mitra nera e un mantello di seta anch’esso nero. Con una bacchetta sottile e nera stava tracciando dei disegni sul corpo di lei, immergendo la punta della bacchetta in una coppa di liquido rosso che un uomo abbronzato e con i baffi bianchi gli reggeva. La punta della bacchetta si muoveva su e giù sulla sua pancia e poi, facendole il solletico, all’interno delle cosce. Quegli uomini e donne nudi stavano cantando – parole monotone e stonate in una lingua straniera – e un flauto o un clarinetto li accompagnava. «È sveglia, ci vede!», bisbigliò Guy a Minnie. Stava tutto teso, con gli occhi sbarrati. «No che non ci vede», rispose Minnie. «Se ha mangiato la mousse non può né vedere né sentire. È come morta. Ora canta».
Jackie Kennedy entrò nella sala da ballo indossando un impeccabile vestito da sera di raso color avorio, ricamato di perle. «Mi dispiace tanto di sapere che non ti senti bene», disse, accorrendo verso Rosemary.
Rosemary spiegò la faccenda della mousse, minimizzandola per non allarmare Jackie.
«Dovresti farti legare le gambe», disse Jackie, «nel caso che ti vengano le convulsioni».
«Sì, hai ragione», rispose Rosemary. «C’è sempre il pericolo che fosse avvelenata». E guardò con interesse gli infermieri in camice bianco che le legavano le gambe e poi anche le braccia alle colonne del letto.
«Se la musica ti dà fastidio», disse Jackie, «avvertimi e la faccio spegnere».
«Oh no», esclamò Rosemary. «Ti prego, non cambiare programma per colpa mia. Non mi dà nessun fastidio, davvero».
Jackie le sorrise con simpatia. «Cerca di dormire», disse. «Noi aspettiamo di sopra, sul ponte». Si ritirò, con un fruscio della veste di raso.
Rosemary dormì un poco, quindi arrivò Guy e cominciò a fare l’amore con lei. La accarezzò con ambedue le mani: una lunga carezza avida che cominciò dai polsi di lei, legati, scivolò giù lungo le braccia, il petto e i fianchi, e si trasformò in un voluttuoso solletico tra le gambe. Ripeté ancora l’eccitante carezza e poi ancora, con mani roventi e dalle unghie affilate, e infine, quando lei fu pronta-prontissima-più-che-pronta, le mise una mano sotto le natiche, gliele sollevò, le appoggiò contro la sua erezione e gliela spinse dentro con potenza. Era più grande del solito; dolorosamente, meravigliosamente grande. Le si appoggiò addosso, con l’altra mano che le scivolava dietro la schiena per reggerla e l’ampio torace che le schiacciava i seni. (Indossava, poiché era un ballo in costume, un corsetto di cuoio durissimo.) Con brutalità, con ritmo, spinse a fondo quel suo insolito turgore. Lei aprì gli occhi e vide due occhi gialli, ardenti, avvertì odore di zolfo e di radice di tannis, sentì un alito umido sulle sue labbra, udì i grugniti di piacere e di desiderio e l’ansimare degli spettatori.
Non è un sogno, pensò. Sta succedendo veramente. La protesta le sorse negli occhi e nella gola, ma qualcosa le coprì il viso, soffocandola in un dolce tanfo.
Il gran turgore continuava a penetrarla, il corpo ricoperto di cuoio sbatteva contro di lei ancora e poi ancora.
Entrò il papa, con una valigia in una mano e un cappotto appoggiato sul braccio. «Jackie mi ha detto che hai sbattuto il muso nel cioccolato», disse.
«Sì», rispose Rosemary. «È per questo che non sono venuta a vederla». Parlò con voce triste, in modo che lui non sospettasse che aveva appena avuto un orgasmo.
«Va tutto bene», disse il papa. «Non vogliamo che tu metta a repentaglio la tua salute».
«Sono perdonata, Padre?», chiese lei.
«Certamente», disse lui. Allungò la mano perché lei gli baciasse l’anello. Incastonata all’anello, c’era una sferetta in filigrana d’argento di due o tre centimetri di diametro; all’interno, una minuscola Anna Maria Alberghetti era seduta in attesa.
Rosemary baciò l’anello e il papa scappò via per non perdere l’aereo.
© Ira Levin, 1967, 1995. Tutti i diritti riservati.