Pubblichiamo oggi una bella intervista di Martina Testa, editor della collana BIG SUR, a Karen Russell, autrice dei Donatori di sonno. L’articolo è uscito originariamente sulla SURletter, lo spazio in cui raccontiamo un pezzetto di mondo, quella nostra collezione di cartoline che è il catalogo della casa editrice. (Se ti va di scoprirne di più clicca qui.)
Karen Russell ha pubblicato tre raccolte di racconti (di cui in Italia sono uscite per Elliot Un vampiro tra i limoni e Il collegio di Santa Lucia per giovinette allevate dai lupi), ed è stata finalista al Premio Pulitzer con il romanzo Swamplandia! (Elliot, 2011). Ha ricevuto le due più importanti borse di studio americane per le arti, quella della MacArthur e della Guggenheim Foundation.
I donatori di sonno è un romanzo che parla del sonno, e dei sogni, perciò colgo l’occasione per dire che nella nostra società neoliberista il concetto di sogno è stato trasformato in un sinonimo di «desiderio» o «ambizione». Nelle culture antiche il sogno è un modo per entrare in connessione col Dio, i sogni sono visioni, sono qualcosa di misterioso e oscuro, il portale verso un’altra dimensione. Mi piace che I donatori di sonno ci ricordi che sognare non è un’allegra forma di autoterapia, ma un’attività molto più indefinita e fuori dal nostro controllo. Tu che ne pensi?
Questa è una delle mie domande preferite di sempre. Sì, anche io odio il fatto che i sogni ci vengano venduti come «un’allegra forma di autoterapia». Sognare, come scrivere, è un abbandonarsi, inebriante e spesso spaventoso. Cosa ci apparirà avanti agli occhi? Come andrà avanti la storia? Che significato ha?
La letteratura è una forma di scambio di sogni. Sono i libri la prima tecnologia per la trasfusione dei sogni: trasferiscono il sogno dell’autore nel corpo del lettore, dove diventa qualcosa di intimo e individuale, strutturato dai suoi ricordi e dalla sua immaginazione. Ma non c’è nulla di più misterioso dell’attività onirica che compiamo di notte nel nostro letto. Nessun esperto ha ancora capito perché gli animali sognano. Passiamo un terzo della nostra vita distesi a occhi chiusi, vivendo in questi mondi fittizi che ci appaiono reali come quando siamo in stato di veglia.
Nel giusto contesto, non mi dà fastidio l’uso di «sogno» come sinonimo di aspirazione o di visione del futuro. Però mi colpisce la frequenza con cui vediamo il sogno trasformato in qualcosa di sentimentale, innocuo e positivo. Una frasetta da appiccicarsi allo specchio mentre insegui la casa «dei tuoi sogni», l’uomo o la donna «dei tuoi sogni», il corpo «dei tuoi sogni». Vuoi sapere com’è fatto il corpo dei miei sogni? È un polpo, cazzo! O una qualche stramba deformazione del mio corpo in gravidanza, oppure il corpo che avevo da bambina. Insomma, sicuramente non è mai un corpo da #fitnessgoals. Il corpo che ho nei miei sogni non è mai pronto per la prova costume, giuro. Chi sono quindi questi nostri alter ego fantasmatici, queste persone che nei sogni hanno la nostra faccia e parlano con la nostra voce? Generate dall’elettricità all’interno dei nostri «reali» corpi addormentati; o forse, come dicevi tu, ricevute mediante antenne segrete. Che mistero imperscrutabile, è veramente inquietante! C’è una frase nei Donatori di sonno che dice più o meno: «I sogni sono la forma di comunicazione più onesta che un corpo può avere con sé stesso». Cos’è che produce questa mediazione? Dove nascono, i mondi sognati da cui ci facciamo avvolgere così completamente?
La società neoliberista e il rapace sistema capitalistico deformano e distorcono il linguaggio. Sono felice di restituire al sogno un po’ di quell’indomabile mistero e di quel potere sacro di cui parli.
Un aspetto gustosissimo della tua scrittura è l’uso che fai della metafora. Le tende di una roulotte sono come «veli nuziali per topi, négligé per cincillà»; le biciclette con la catena scassata producono un suono «stranamente gioviale, come se i meccanismi stessero spettegolando»; una moglie arrabbiata che alza la voce dà «colpetti martellanti da picchio contro la robusta quercia del marito»… Mi piace il fatto che queste similitudini ci fanno apparire improvvisamente davanti agli occhi un mondo diverso e bizzarro. Puoi parlarci un po’ delle metafore? Perché ti piacciono, come hai imparato a usarle, ti vengono naturali perché è la tua maniera di vedere il mondo?
A volte penso che ciò che chiamiamo «stile» sia per molti versi il riflesso delle idiosincrasie della coscienza dell’autore, il suo modo unico di tirare fuori un senso da questa realtà incredibilmente complessa, strana e bella, con le sue tante connessioni sorprendenti. Noi comprendiamo tutto per analogia. I cliché non sono altro che metafore morte, no? O, per usare un’altra metafora ancora, limoni spremuti. Per me un grande piacere della lettura e della scrittura è incontrare una lingua che mi faccia vedere la realtà con occhi nuovi. Le metafore possono aiutarci a rimettere a fuoco aspetti della nostra miracolosa vita «quotidiana» a cui spesso diventiamo insensibili. Mi emoziona sempre trovare una metafora capace di cogliere la realtà in un modo che sia al tempo stesso nuovo e familiare, sorprendente ma anche, in qualche modo, istintivamente esatto. Sono sicura che soltanto una piccola parte delle mie hanno questo effetto sul lettore, ma resta il fatto che le metafore le amo da morire. Amo Italo Calvino, per esempio, che sa dilatare una metafora fino a farla diventare un romanzo intero, un mondo di significato tutto da abitare.
E sì, credo che questo sia proprio il mio modo di vedere il mondo. In effetti, quando scrivo ho spesso il problema che il mio cervello genera troppe metafore rispetto a quante ne richiede la storia, certe volte diventa frenetico. «L’erba infestante del linguaggio figurato», la chiamavo mentre lavoravo al mio romanzo Swamplandia! Col passare degli anni, mi rendo conto che la mia prosa è diventata un po’ più semplice e diretta. È interessante: la parte del mio cervello che mi inonda di analogie oggi somiglia meno a un rubinetto scrosciante rispetto a quando avevo venti o trent’anni. Forse per via della riduzione delle sinapsi che avviene durante la gravidanza? Forse sto imparando a domare l’«alligatore analogista» che ho dentro, l’analligatore, come lo chiama mio fratello (Kent Russell, scrittore anche lui e analligatore come me, creatore di analogie quasi compulsivo, abbiamo questo stesso dono/vizio, in fatto di metafore). Dio benedica gli editor, che mi aiutano a trovare quelle più forti e a sfrondare le altre! Mi piace moltissimo Melville, che lancia in giro metafore come reti e poi le disfa, abbandonandone una elaborata in favore di un’altra che a volte sembra contraddittoria e incongruente rispetto alla prima. Compie senza sosta, instancabile, quell’opera di creazione di significato: annodando nuove immagini, cucendo insieme nomi e verbi apparentemente disparati per produrre una nuova comprensione della realtà. Le metafore sono sempre insufficienti, e possono anche esagerare e distorcere la verità… eppure sono necessarie per vedere e conoscere qualunque aspetto del mondo in cui viviamo insieme.
Per essere la storia di una serie di persone che stanno letteralmente cercando di salvare vite umane e aiutare il mondo, nessun personaggio del tuo romanzo sembra particolarmente «buono» o puro. Alcuni sono motivati, alla base, da un interesse personale, e/o hanno una sorta di saviour complex, e/o sono manipolatori, e/o impegnati in qualche gioco di potere. I volontari, i donatori, i benefattori li vediamo spesso come eroi, e invece tu hai scelto di complicare il quadro (ottima idea secondo me): come mai?
Grazie, Martina; sì, esatto, è proprio così: tutti noi conteniamo moltitudini, no? È una vera folla da provare a gestire! Tante identità, tanti impulsi e desideri in contraddizione fra loro.
Per quanto mi riguarda, con buona pace di quello che un mio amico chiama «atteggiamento da supereroe»… io il mondo lo voglio salvare veramente! Chi si può esimere dal cercare di salvare il mondo, di proteggerlo, di curare le nostre relazioni reciproche e il rapporto con la nostra casa comune? Ma da questo stesso desiderio può nascere tutta una serie di problemi, e ovviamente c’è il gracchiare dell’interferenza creata dall’ego, dalla paura, dalla smania di profitto, dal desiderio di sicurezza e connessione che può degenerare in tante forme distruttive nella nostra società incerta e precaria e nel nostro sistema economico ipercompetitivo. Cosa succede a un dono, in un mondo di questo tipo? Cosa può diventare un impulso generoso?
Trish ha un desiderio puro e sincero di donare la propria vita alla causa delle Brigate Morfeo, dedicandosi senza riserve ad aiutare gli altri, ad alleviare le sofferenze degli insonni. Ma al tempo stesso, ovviamente, ha motivazioni più oscure e appetiti nascosti. Una delle cose che mi ha divertita di più, nello scrivere questo romanzo, è stata l’opportunità di esplorare, in me, le stesse ambiguità. Affrontare certi interrogativi morali e filosofici e rendermi conto (spesso con orrore!), di quanto ogni tentativo di salvare il mondo deve avere basi solide e profonde, per non fallire. La gente è bravissima a auto-ingannarsi – bisogna essere bravi in quello, prima di poter ingannare o manipolare gli altri. I migliori lieto fine che riesco a immaginare sono sempre inizi: un personaggio che pian piano si risveglia, per periodi sempre più lunghi, e riscopre la propria complessità e il flusso delle proprie paure e speranze, le proprie motivazioni.
È una gran fatica per tutti rimanere svegli. Rimanere onesti, o quanto più onesti è possibile dati tutti gli ostacoli interni ed esterni che ciascuno di noi incontra, e i tanti incentivi a distogliere gli occhi dalla realtà. Prima di riuscire ad avere un impatto positivo su una certa situazione, o a risolvere collettivamente i tanti problemi che ci accomunano, penso che ciascuno di noi debba analizzare bene cos’è che ci spinge ad agire, e perché.
Trovo che tu sia una straordinaria inventrice di mondi. Il Furgosonno, la Nottopoli, i Campi di Papaveri sono ambientazioni vivide e indimenticabili. Mi hanno ricordato il film di Tim Burton, e mi chiedo se tra le tue fonti di ispirazione ci siano anche il cinema, il fumetto o le arti visive in generale. Però ovviamente la letteratura è un campo a sé, e in questo senso volevo chiederti: ti senti parte di una tradizione del «fantastico»? Ti consideri in dialogo con altri scrittori e scrittrici, del passato o del presente?
L’invenzione di mondi mi dà un enorme piacere, sia come lettrice che come scrittrice. Quando ero piccola, i libri erano porte che potevo aprire in qualunque stanza «reale», e da cui entrare in un’altra dimensione. L’autrice Porochista Khakpour ha definito la letteratura uno strumento «sia di fuga che di confronto». Io amavo questi universi fantastici in cui si potevano porre dilemmi e domande e problemi reali, con una posta in gioco altissima. Ci sono tante opere letterarie da cui I donatori di sonno ha preso ispirazione, e con cui dialoga: «Quelli che sia allontanano da Omelas» di Ursula K. Le Guin (l’orrore al centro della storia, la provocazione della Piccola A donatrice universale), Il mago di Oz di Frank L. Baum e Il popolo dell’autunno di Ray Bradbury (i Campi di Papavero e l’atmosfera da giostra della Nottopoli), le storie di insonnia di Gabriel García Márquez e Stephen King, quel capolavoro che è La parabola del seminatore di Octavia Butler [in uscita nel 2024 per Edizioni Sur, n.d.r.]. Amo i racconti e i romanzi in cui, come dice Flannery O’ Connor, «non è che la verità viene distorta, si usa una distorsione per arrivare alla verità».
Altri due libri che hanno avuto un grosso impatto su di me sono stati Debito di David Graeber e Il dono di Lewis Hyde. E poi, l’ho letto molto tempo dopo la pubblicazione originaria del romanzo, nel 2014, ma adesso vedo molti collegamenti fra I donatori di sonno, con il suo scenario di sorveglianza onirica da parte dello Stato, e Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff. Al momento sto rileggendo Our History is the Future di Nick Estes e Total Liberation di David Naguib Pellow [il primo è un saggio sui movimenti di protesta e di resistenza dei nativi americani, il secondo sull’ambientalismo radicale, n.d.r.]. Anche i libri di non fiction possono operare la stessa magia della letteratura fantastica: mettere a fuoco nuovi mondi. Possono funzionare come grandi ipotesi controfattuali, e rendere vivide e plausibili strutture sociali alternative a quelle esistenti.
Dimenticavo di dire che sì, in effetti adoro Tim Burton. Un altro dei miei artisti preferiti è Shaun Tan. E Natalie Frank, che mi ustiona con le sue straordinarie fiabe illustrate. E poi lo stile di animazione di certi classici degli anni Ottanta come L’ultimo unicorno e La collina dei conigli. Mi piacciono anche moltissimo i collage che hanno realizzato Ale + Ale per illustrare l’edizione americana di I donatori di sonno: hanno superato ogni mia aspettativa sul lavoro grafico che il libro avrebbe potuto ispirare. A volte mi piacerebbe proiettare le immagini che ho in testa direttamente su uno schermo. Dipingere con le parole costa un sacco di tempo e di fatica!
Il romanzo è stato originariamente pubblicato nel 2014, molto prima della pandemia di Covid-19, ma tanti aspetti della storia rispecchiano molto da vicino gli eventi che abbiamo vissuto. Come hai fatto a creare la tua epidemia immaginaria? Avevi assistito ad altre epidemie prima del Covid, ti eri documentata leggendo? O te la sei inventata di sana pianta? E che effetto ti ha fatto, vivere in mezzo a un’epidemia dopo averne raccontata una?
All’epoca, nel 2014, trovavo interessante il fatto che il nostro mondo sembrasse sempre più connesso, perennemente agganciato all’enorme occhio insonne e luminoso di Internet, mentre al tempo stesso pareva spandersi ovunque un’epidemia di solitudine e disperazione. L’accelerazione dell’economia globale 24 ore su 24, quel misto di iperconnessione e isolamento, frammentazione: mi sembrava molto interessante, e anche spaventoso. La divisione fra reale e virtuale andava scomparendo. Il confine fra pubblico e privato era stato cancellato. Avevamo nuove tecnologie che in pratica non facevano altro che trasmettere sogni e incubi, amplificandoli. Era un periodo molto poroso, io per prima mi sentivo come un enorme occhio dilatato, vedevo quanta parte delle nostre vite stavamo caricando e condividendo online, quanto erano stati scombussolati i nostri ritmi animali dell’alternanza fra il giorno e la notte, come tutto veniva mercificato, comprese le nostre esperienze più intime… e potrei andare avanti! Tutte tendenze che sono senz’altro continuate. Questa per dire che l’epidemia di insonnia mi sembrava una metafora utile per raccontare molte crisi già in atto negli Stati Uniti e non solo. Il modo in cui lo scorrere stesso del tempo è stato deformato dal nostro sistema economico. Il fatto che veniamo incoraggiati a ignorare le esigenze del nostro corpo e degli altri corpi, a scavalcare le leggi e la logica e i limiti della natura. C’è così tanta gente in America che non ha neanche un letto su cui dormire. Oltre alle risorse naturali, è il futuro stesso, quella luce all’orizzonte, a essere distribuito in maniera diseguale sul pianeta. Scusami, sto divagando, ma volevo solo dire: nel 2014 non avrei mai immaginato che una seconda edizione di I donatori di sonno sarebbe uscita durante una vera pandemia globale.
Ed è stato strano, in quelle prime settimane e mesi febbrili, vivere in prima persona certi aspetti drammatici di I donatori di sonno: l’epidemia secondaria di dicerie e disinformazione sulle false «terapie» per il coronavirus, ad esempio.
Mi ricordo benissimo che in quel periodo mi scrivevo con queste fenomenali illustratrici italiane, Ale + Ale, per un finto pamphlet da inserire nell’edizione americana del tascabile. Era fine gennaio, inizio febbraio del 2020. Nel giro di una settimana, siamo passate dal guardare il sito del Ministero della Sanità per trarne ispirazione nel realizzare una tragicomica mappa degli incubi contagiosi, al consultarlo per trarne informazioni: ricaricando di continuo la pagina per avere aggiornamenti sull’evolversi dell’epidemia di coronavirus. È stata una cosa assolutamente terrificante, surreale e disorientante. Visto che parlavamo di metafore: nessuna esplorazione metaforica o letteraria del concetto di epidemia avrebbe potuto prepararmi a quello che è successo all’inizio del 2020, quando il coronavirus ha sconvolto e cambiato per sempre la nostra realtà. Francamente, come molti di noi sto ancora elaborando l’accaduto. E continuerò a farlo, ne sono sicura, per tutto il resto delle mie notti.