Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Le forze armate guidate dal generale Pinochet rovesciano il governo del presidente Salvador Allende – eletto democraticamente nel 1970 – con un colpo di stato militare. Allende muore nell’attacco, probabilmente suicida, mentre Pinochet guida il governo per diciassette anni, macchiandosi di crimini contro l’umanità e instaurando una delle dittature militari più sanguinose della storia.
Oggi, con il brano che segue tratto da Storia del pianto, vogliamo ricordare il golpe cileno con le parole di Alan Pauls. Buona lettura!
da Storia del pianto
di Alan Pauls
traduzione di Maria Nicola
L’11 settembre del 1973, in casa di un amico più grande di lui di due anni, una di quelle amicizie impari che sono state e saranno la sua specialità e nelle quali è sempre lui il più giovane, esce dalla stanza del suo amico per andare a prendersi una bella porzione del plumcake marmorizzato che gli piace da impazzire e quando torna dalla cucina, con quattro fette ufficiali nel piatto e due clandestine nello stomaco, lo trova seduto sul bordo del letto, sconsolato e in lacrime di fronte allo schermo del televisore in bianco e nero dove si vede il Palacio de la Moneda di Santiago, già quattro volte bombardato, quel giorno, da squadriglie di aerei ed elicotteri delle militari, esalare fumo da tutte le finestre mentre la voce compunta di uno speaker del telegiornale riferisce la notizia giunta da fonti non ufficiali secondo la quale Allende – l’ancora presidente Salvador Allende, come ora viene definito, chissà se per solidarietà o per scrupolo giuridico, dal momento che Allende rimarrà presidente del Cile non solo finché il palazzo che era sede del suo potere non sarà ridotto in cenere dal fuoco militare, ma finché non ce ne sarà un altro a occupare il suo posto, o forse per semplice diffidenza, per cautela professionale nei confronti delle fonti non ufficiali che l’insistenza dello speaker nel ripetere la notizia non fa che contraddire – si sarebbe tolto la vita, dopo aver resistito all’interno del palazzo con i suoi collaboratori più stretti, sparandosi in bocca con l’AK-47 regalatogli un tempo da Fidel Castro. Lo vede piangere, e prima ancora di capire fino in fondo perché, prima ancora di collegare tutto quello che sa sulle convinzioni politiche del suo amico, molto simili alle sue e tuttavia, se deve dar credito alla sensazione che l’ha sempre tormentato, tanto più convincenti, al punto che da quando lo conosce e ha familiarità con la sua posizione politica, come entrambi chiamano quella cosa che all’epoca è obbligatorio avere, che nessuno può prendersi il lusso di non avere, si è sempre sentito una specie di impostore, il doppio annacquato del suo amico, il ciarlatano che ripete in un linguaggio poco convincente, disseminato di riflessi automatici e formule di seconda mano, tutto ciò che dalle labbra del suo amico pare uscire nella lingua materna della verità – prima ancora di collegare tutto quello che sa del suo amico con le immagini che vede, e che mostrano fino a che punto le sue convinzioni politiche abbiano subito un colpo mortale, è travolto da un’ondata d’invidia che gli toglie letteralmente il fiato. Anche lui vorrebbe piangere. Darebbe tutto quello che ha pur di riuscire a piangere, ma non ci riesce. Lì, in piedi nella stanza del suo amico, mentre cerca di farsi tornare in mente in fretta e furia le tragedie, tutte virtuali, dalle quali confida di poter ricevere la benedizione di un dolore istantaneo, capisce che non piangerà. Non sa se siano le immagini, che per qualche strana ragione non lo toccano così tanto, o così profondamente, o così distintamente come toccano il suo amico, o se siano i due anni in meno, che così come gli conferiscono prestigio – consacrandolo come esempio di una tradizione di precocità politica, quella comunista, che vanta una lunga lista di notevolissimi precedenti, ovvero come uno che a tredici anni legge e capisce e addirittura discute con cognizione di causa certi classici della letteratura politica del Novecento capaci di mettere alle corde anche i militanti più esperti –, al tempo stesso lo ostacolano, limitano in lui la facoltà fisica o emotiva di sentire la politica che nel suo amico di quindici anni è già pienamente sviluppata. O non sarà forse che il dolore del suo amico, seduto davanti al televisore, con la faccia, come ogni buon miope, quasi incollata allo schermo, assorbe in modo così totale il significato e la forza dell’informazione irradiata dall’apparecchio che a lui non ne resta più nulla, non un misero avanzo né una briciola delle dimensioni di quelle che ha lasciato in cucina quando si è sbafato le ultime due fette di plumcake marmorizzato, nulla che possa toccarlo e tradurre in lui tutto quel che comprende – perché comprende tutto, certo molto più del suo amico, al quale solo quella mattina, tanto per dire, ha chiarito con tre o quattro pennellate di impertinente lucidità la catena di cause ed effetti che lega un banale sciopero di camionisti alla fine dei duemila giorni della prima esperienza di socialismo democratico in America Latina – nella lingua ultima, o prima, dei sentimenti? […] Invidia il pianto, certo, l’incontenibilità del pianto e tutto quel che il pianto comporta, le congiuntive rosso sangue, il rossore al viso, gli accessi di singhiozzo che scuotono il suo amico, la furia sconsolata con cui si stropiccia le mani, il modo in cui a intervalli si copre la faccia per soffocare, o forse per stimolare, una nuova ondata di lacrime. Ma più di ogni altra cosa invidia quanto sia vicino il suo amico alle immagini che lo fanno piangere – al punto che si direbbe sfiori lo schermo con la punta del naso, la facciata in fiamme del Palacio de la Moneda con la fronte, le colonne di fumo che salgono dalle finestre con le labbra infiammate, al punto che lui, standosene lì in piedi a guardarlo, con il piatto del plumcake marmorizzato in mano, comincia a chiedersi se una lacrima, una sola delle migliaia di lacrime che il suo amico, come chi conta i soldi davanti a un povero, non la finisce più di versare, non possa magari fulminarlo all’istante facendo contatto con lo schermo del televisore.
È una situazione che non sopporta. Perché non è così vicino anche lui? Che cosa lo separa da quel che capisce così bene, da quel che capisce meglio di chiunque altro? Gli pare che il mondo non sia mai stato così ingiusto: solo lui ha il diritto di piangere, ma i suoi occhi sono così asciutti che potrebbe strofinarci un fiammifero e accenderlo. E quello stesso diritto che si sente negare, lui che più di ogni altro ha i requisiti per meritarlo, il diritto accordato a un altro come un’onorificenza immeritata, gli tocca per di più vederlo esercitato dal suo amico in lacrime mentre lui se ne sta lì col piatto del plumcake in mano, lo stesso genere di privilegio vergognoso a causa del quale sospetta che i contadini del Medioevo, quando proprio non ce la fanno più, ovvero ogni morte di vescovo, si ribellino e sgozzino in poche ore di frenesia la famiglia dei feudatari i cui piedi sono abituati a baciare tutti i santi giorni. L’11 settembre del 1973, ventiquattro ore prima che lui e il suo amico, che mentre il Palacio de la Moneda va a fuoco decidono di piazzarsi davanti al televisore e, come lo stesso Allende, lì, sullo schermo, dentro il palazzo, di resistere, di non abbandonare la postazione finché non avranno ricavato notizie certe sulla sorte di Allende, dei suoi collaboratori più stretti e della via cilena al socialismo in generale, assistano al momento incancellabile in cui due file di pompieri portano fuori dal numero 80 di calle Morandé, uno degli ingressi laterali del palazzo in rovina, il corpo senza vita di Allende avvolto in un chamanto, come lui e il suo amico scoprono che viene denominato in Cile quel tipo di coperta, e prima che il suo amico scoppi di nuovo a piangere, mentre lui, invece, niente, non solo non versa una misera lacrima ma nemmeno riesce a chiudere gli occhi – in quel giorno fatidico, insomma, lui maledice il giorno altrettanto fatidico di sette anni prima nel quale decide di non cedere, di non dare più quella soddisfazione a suo padre, di smetterla di piangere per sempre.
© Alan Pauls, 2007. Tutti i diritti riservati.