Da una collaborazione fra l’Ambasciata della Colombia in Italia e edizioni SUR, lo scorso 27 marzo si è tenuto presso la libreria Spazio Sette di Roma il prezioso incontro «Oltre García Márquez», dedicato alla ricchezza della letteratura colombiana contemporanea tradotta in italiano. Oggi pubblichiamo l’intervento della scrittrice e giornalista Marta Orrantia, che ha tracciato i nuovi orizzonti verso i quali si muovono le lettere colombiane, oltre l’ingombrante eredità di Gabo.
Il titolo di questo incontro è molto provocatorio. Il nome di García Márquez è presente anche quando vogliamo voltare pagina e parlare d’altro. È ancora, dopo tanti anni, una figura enorme. Lui e tutti gli scrittori del Boom. E poiché il titolo stesso lo consente, vorrei dire quello che penso sia successo da quando quel nome ha diviso per sempre in due la letteratura colombiana.
Prima di tutto, mi è sempre parso contraddittorio parlare di Boom latinoamericano quando in realtà si è trattato di un pugno di scrittori uomini che hanno permeato il mercato librario mondiale. C’erano anche autrici come Rosario Castellanos, Elena Garro o María Luisa Bombal, ma non erano famose quanto gli uomini. Questi scrittori vendettero milioni di copie, ed è forse proprio quel successo di vendite che ha dato il nome al Boom.

Fino alla metà degli anni Settanta, l’enorme ombra di Vargas Llosa, Carlos Fuentes, Julio Cortázar e soprattutto García Márquez, si diffuse su tutta l’America Latina, oscurando, spegnendo le altre voci, che certamente esistevano, ma che non riuscivano a farsi sentire.
In Colombia abbiamo quindi dovuto fare un esercizio molto freudiano di «uccidere il padre», affinché gli scrittori potessero avanzare proposte diverse. Uno dei primi è stato senza dubbio Andrés Caicedo con il suo romanzo Viva la musica!, che ci ha insegnato che un universo letterario diverso era possibile.

Prima di Caicedo, l’America Latina era un luogo dove le donne ascendevano anima e corpo al cielo, dove gli uomini vomitavano conigli, un luogo pieno di esuberanza, fantasia e possibilità perché vivevamo in una giungla strana e impenetrabile. Forse i lettori europei cercavano inconsciamente un luogo così, una sorta di vortice, dove poter vedere l’esotico di un continente praticamente sconosciuto.
Caicedo ha cambiato tutto questo. Lo scrittore cileno Alberto Fuguet lo ha definito il «primo nemico di Macondo». Ha trasformato Cali, una città colombiana di medie dimensioni, in un personaggio dei suoi libri, e ci ha portato, per così dire, in un luogo sporco, triste, desolato, terreno e reale come qualsiasi altra città al mondo.
Caicedo ci ha messo in contatto con un’altra essenza, ci ha aperto una porta diversa e a poco a poco gli scrittori hanno smesso di imitare lo stile marqueziano per trovare la propria voce, raccontare le proprie storie e abbandonare il costumbrismo per concentrarsi sull’iperrealismo.

Il Boom si è concluso più o meno a metà degli anni Settanta, ma ci è voluto molto tempo perché potessimo risvegliarci. Non che gli anni Ottanta e Novanta siano stati un deserto letterario in Colombia, tutt’altro. Ci sono stati scrittori tenaci, come Laura Restrepo, Marvel Moreno, Roberto Burgos Cantor, Albalucía Ángel o Rafael Chaparro (che è l’Andrés Caicedo di Bogotà), che hanno continuato a scrivere anche se non erano visibili, perché Gabo ha vinto il Nobel e tutto il resto è diventato un’ombra.
È possibile, inoltre, che l’Europa si sia in qualche modo stancata della letteratura fantastica, della giungla e degli eccessi del nostro continente esotico, perché dopo il Boom c’è stato anche il silenzio. La letteratura colombiana è stata dimenticata, o quasi. Forse si aspettavano qualcosa in più, forse volevano qualcosa che parlasse non più di un luogo utopico e folle, ma di loro stessi.
A partire dal nuovo millennio però si sono visti in Colombia alcuni fenomeni molto interessanti: per prima cosa, si è cominciato a organizzare festival letterari in tutte le regioni del paese. Medellín, Cali, Bucaramanga, Pereira, Barranquilla e Cartagena… Poi è arrivato il Master in Scrittura Creativa creato dall’Università Nazionale della Colombia. Lo dico con grande orgoglio, perché lì sono stata insegnante. Si è trattato del primo master in scrittura creativa in America Latina, sul modello del leggendario master dell’Iowa, e appartenente alla più importante università pubblica del paese. Il semplice fatto che questa prestigiosa università abbia convalidato la scrittura creativa, conferendole lo status accademico, è stato una forza trascinante e allo stesso tempo uno specchio di ciò che stava accadendo in Colombia. Infine, abbiamo visto nascere piccole case editrici molto attente alla qualità della proposta, cosa che ha ispirato anche i grandi gruppi editoriali a scommettere su nuove voci letterarie.
È stato allora, secondo me, che è iniziato il vero boom. Un boom che ha già venticinque anni, e che ha prodotto centinaia di scrittori e, soprattutto, di lettori: siamo in un momento unico e privilegiato per la letteratura in Colombia. Ora ci sono laboratori di scrittura nelle librerie, nelle biblioteche pubbliche, nelle carceri, e come parte del processo di pace per le vittime e gli ex combattenti.
La scrittura è diventata un veicolo molto importante per mostrare la nostra realtà, per guardarci e capirci, per raccontare le nostre storie. Non posso dire che ci siamo dimenticati di Gabo, perché non è così. Ma ora ci appoggiamo alle sue spalle e guardiamo lontano e scopriamo altri modi di raccontare di cui ci siamo appropriati.
Molto è cambiato, però. Per cominciare, il formato. Nel Boom degli anni Settanta c’era molto spazio per scrivere racconti, e adesso il racconto è quasi del tutto scomparso per lasciare posto solo al romanzo. Naturalmente sono cambiati anche i temi. Da Caicedo ci siamo sentiti autorizzati a parlare di questioni urbane e, ovviamente, a parlare di violenza. Perché la letteratura colombiana è attraversata dal conflitto armato, dalla povertà e dalle diseguaglianze. È cambiato anche il modo in cui raccontiamo. Adesso la scrittura è più intimista, più frammentaria, più sperimentale.
Ora vogliamo parlare di noi stessi, cercare le nostre radici, il nostro passato come modo per comprendere il presente. Scriviamo non di cento anni di solitudine, ma piccole storie, raccontiamo la vita quotidiana dei nostri genitori, dei nostri nonni, non cerchiamo più il realismo magico ma la realtà, e qualche volta anche la distopia, perché questa distopia ci parla anche del nostro universo strano e in cambiamento.
Forse la cosa più importante è che noi donne, finalmente, raccontiamo la nostra versione della storia. Per anni, non solo in Colombia ma nel mondo, sono stati gli uomini a narrare. Hanno raccontato la storia, le battaglie, i governi, hanno raccontato anche le donne. La situazione è già cambiata. Quando ho cominciato a scrivere mi hanno chiesto se facessi letteratura femminile, e io non sapevo cosa rispondere, perché non sapevo cosa fosse, invece, la letteratura maschile. Penso che siamo cambiati e parte di questo cambiamento è evidente nel fatto che le donne scrivono, pubblicano, vincono premi e soprattutto vengono lette.
Ricordo che una volta una collega insegnante mi confessò che non leggeva letteratura colombiana perché non la trovava interessante. Mi ha colpito molto, perché penso invece che negli ultimi anni sia diventato sempre più essenziale per ogni lettore colombiano leggere la produzione nazionale. Prima in Colombia c’era una specie di fastidio per le nostre lettere, le consideravamo un’arte minore, ma non è più così, e gli autori colombiani, e non parlo dei più grandi, ma tutti, sono diventati non solo obbligatori ma cercati, è come una sete di leggerli, e parte di questa trasformazione è dovuta a scrittori come Juan Gabriel Vásquez, Santiago Gamboa, Efraim Medina, e a scrittrici come Piedad Bonnet, Pilar Quintana, Margarita García Robayo, tutti pubblicati in Italia.
Penso, da quello che vedo pubblicato qui, che in Italia sia cambiata anche la ricerca. Non si guarda più all’America Latina come a quel continente esotico, a quella terra sconosciuta, ma si cerca nelle letture latinoamericane la metafora universale. Si cerca di vedersi allo specchio, di sapere che non importa da dove veniamo, non siamo soli, perché qualcuno lo ha sperimentato o ce lo racconta. Perché l’abuso, la maternità, la morte del padre, la ricerca delle radici, la tragedia e la gioia sono temi universali.
Molte cose sono cambiate dagli anni del Boom. Il mercato è diventato atomizzato, a causa della diversità di voci e proposte. Non esiste più uno scrittore che venda un milione di copie (solo Gabo continua a farlo ancora oggi), ma ce ne sono molti che vendono bene, come Juan Gabriel Vásquez o Santiago Gamboa. Dopo la pandemia, ogni anno si registrano record di vendite, perché abbiamo scoperto che un Paese che scrive è un Paese che legge, o almeno che sente il bisogno di comprare libri.
Non tutto è perfetto, però. Devo dire che nella letteratura, come nel resto delle professioni, manca ancora l’equità. Abbiamo cominciato a raccontarci dal punto di vista femminile, ma dobbiamo farlo ancora di più, e poter competere con il mercato maschile, che per tanti anni è stato l’unico a vendere.
C’è anche da dire che, nonostante tutte le opportunità che esistono nelle città, nelle zone rurali e nelle minoranze, così come nei gruppi aborigeni e nelle comunità afro, scrivono meno, perché hanno meno possibilità di leggere e apprendere. C’è anche un gap da colmare, e soprattutto tante storie fantastiche da scoprire.
Infine, per concludere, devo dire che leggere non è facile. L’atto di leggere richiede pazienza, creatività, volontà e tempo. Quando qualcuno mi dice che non legge perché lo trova troppo difficile, o perché ha molte distrazioni, io capisco. È forse per questo che in pochissimi casi la letteratura è stata un bene di consumo di massa ed è stata costantemente minacciata da fattori esterni, come la censura o adesso i social media o le piattaforme di streaming come Netflix. Quindi è sorprendente che in Colombia, dove le condizioni sono avverse, dove c’è violenza, povertà, sfollamento, la scrittura prospera e le case editrici sono un business sano e robusto. Forse è perché la letteratura è come i fiori del deserto, ha bisogno di condizioni avverse per fiorire.
Marta Orrantia, 2025. Tutti i diritti riservati